A cura di Daniela Calanca Alma Mater Studiorum Università di Bologna
D. Negli ultimi anni sembra che la moda abbia perso il suo centro per diventare un mosaico di riferimenti, generi e codici mescolati. È una libertà creativa o un segno di mancanza di direzione?
R. Oggi la moda assomiglia a un grande mosaico, in cui tessere di epoche, culture e codici estetici diversi si incastrano senza uno schema prestabilito. È una condizione affascinante perché permette di vedere, nello stesso outfit, la leggerezza di un kimono accostata alla solidità visiva di una sneaker sportiva; oppure un broccato del Settecento riletto come giacca decostruita o streetwear. Questa libertà di combinazione ha infranto confini che un tempo erano netti e invalicabili, permettendo alle identità di esprimersi in maniera più fluida e personale. Tuttavia, proprio questa molteplicità, se non guidata da una visione coerente, rischia di trasformarsi in dispersione, in una costellazione di segni che non costruiscono un racconto unitario. Quando arrivai in Gucci nel 2015, con Alessandro Michele, la direzione era chiara, riconoscibile: ogni collezione si inscriveva in una narrazione precisa, con riferimenti forti e un linguaggio visivo compatto. Oggi, pur trovandomi davanti a collezioni bellissime e ricche di idee, talvolta avverto la difficoltà di collocarle in un arco narrativo chiaro. Come suggeriva Calvino, “prendere tutto e metterlo insieme” non è sufficiente: occorre un filo che dia senso e profondità a ogni frammento.

Gucci Adv Pre fall 2017 shot by Glen Luchford
D. Lavori in una maison che ha saputo costruire un immaginario fortissimo. Ma quando la narrazione diventa più importante dell’abito, non c’è il rischio che la moda smetta di parlare di moda?
R. La narrazione è ciò che trasforma un abito in un simbolo, capace di andare oltre la sua funzione pratica e di imprimersi nella memoria collettiva. Il tailleur-pantalone di Yves Saint Laurent negli anni ’70, ad esempio, non era semplicemente un completo elegante: liberava la sessualità della donna, ridefinendo il concetto stesso di potere e seduzione, e inscrivendosi così in una storia culturale più ampia. Con Michele, ogni capo era intessuto di storie: un ricamo che evocava il Rinascimento, una seta che rimandava ai languori del Simbolismo ottocentesco, un bottone che custodiva l’anima di un oggetto trovato in un mercatino parigino. Oggi, invece, capita di vedere narrazioni costruite più per rispondere alla rapidità di consumo dei social che per durare nel tempo. Questo genera messaggi affascinanti nell’immediato, ma destinati a svanire insieme allo scroll successivo. La moda, quando è autentica, non si limita a coprire o adornare il corpo: parla, racconta, trasmette cultura. E affinché questa voce sia credibile, la narrazione deve essere incorporata nella materia stessa del capo, nelle sue linee, nei suoi dettagli, così che il messaggio non si esaurisca fuori dalla passerella.

Yves Saint Laurent “Le Smoking”, 1975 shot by Helmut Newton
D. Lavorare su un patrimonio estetico così forte può essere un privilegio, ma anche una gabbia dorata. In quali momenti hai sentito il peso di quell’eredità?
R. Ho percepito in modo tangibile il peso dell’eredità nei momenti di transizione creativa. Quando un direttore creativo lascia, la maison rimane come una casa che trattiene ancora il suo profumo: l’atmosfera è satura di memorie, ma c’è un bisogno urgente di aprire le finestre. Ricordo la mia prima collezione dopo Michele: fu come togliere la cornice a uno specchio e chiedersi se avrebbe retto da solo, senza l’appoggio di quella struttura narrativa che fino a poco prima aveva dato senso a ogni elemento. Lavorare su un patrimonio estetico così potente è un privilegio straordinario, perché ti fornisce codici, simboli e un lessico riconosciuto in tutto il mondo. Ma può anche essere una gabbia dorata: il rischio è rimanere prigionieri di ciò che ha già funzionato. La vera sfida è intervenire su quei codici, smontarli e rimontarli, contaminandoli con elementi inediti senza distruggerne l’essenza. Perché, se l’eredità non si evolve, rischia di diventare un reperto museale: prezioso, ma irrimediabilmente statico.

Gucci Ancora Adv S/S 2024 shot by David Sims
D. La moda oggi ama definirsi “impegnata” su temi sociali e politici. Ma quanto di questo impegno ti è sembrato autentico e quanto, invece, strategia di marketing?
R. Nel corso degli anni ho visto campagne e scelte progettuali che nascevano da un impegno autentico, e altre che si limitavano a cavalcare un trend. In Gucci, durante la direzione di Michele, il genderless non era un tema stagionale o una mossa strategica: era un principio costitutivo che permeava ogni aspetto, dai casting alla costruzione delle collezioni, fino alla comunicazione e al merchandising. Altrove, ho assistito a dichiarazioni di sostenibilità o inclusione che restavano slogan, non radicandosi nei processi produttivi o nelle logiche aziendali. La differenza è evidente: quando l’impegno è reale, plasma non solo il messaggio esterno, ma il funzionamento interno del brand. Non si tratta di inserire un tema in una campagna pubblicitaria, ma di fare in modo che quell’idea modelli le decisioni creative, la scelta dei materiali, le modalità di distribuzione. Se manca questa coerenza, il messaggio non diventa cultura, ma semplice decorazione.

Make up Adv S/S 2019 shot by Martin Parr
D. I social hanno reso tutto immediato e globale. Ma questa fame di novità ha arricchito o impoverito la moda?
R. I social media hanno alterato in maniera radicale la percezione e la durata del tempo nella moda. Se un tempo una sfilata era un evento che viveva nei mesi successivi attraverso riviste, servizi fotografici e passaparola, oggi la sua esistenza pubblica può ridursi a poche ore. Lo scroll infinito porta lo spettatore a passare da un’immagine all’altra con la stessa rapidità con cui cambia argomento, e questo flusso costante rischia di annullare la possibilità di sedimentare un’emozione o un ricordo visivo.
Negli anni ’90, un’immagine scattata da Peter Lindbergh poteva restare impressa nella memoria collettiva per mesi, diventando un punto di riferimento estetico e culturale. Oggi, invece, anche lo scatto più potente rischia di essere “consumato” e dimenticato quasi subito. Certo, la velocità imposta dai social può avere anche effetti positivi: costringe designer e brand a mantenere un ritmo creativo alto, a dialogare in tempo reale con il pubblico e a reagire rapidamente ai cambiamenti culturali. Ma il rischio è quello di sacrificare la profondità sull’altare dell’immediatezza.
La moda, per restare significativa, ha bisogno di radici e le radici si sviluppano nel tempo. Senza il tempo della contemplazione, della ripetizione e della memoria, il linguaggio visivo rischia di diventare solo rumore di fondo. La vera sfida, oggi, è trovare il modo di coniugare la rapidità del presente con la capacità di costruire narrazioni che durino.

Naomi Campbell, Linda Evangelista, Tatiana Patitz, Christy Turlington, Cindy Crawford, New York, 1990 shot by Peter Lindbergh
- Se dovessi individuare un solo momento o un solo cambiamento che ha segnato la moda di lusso negli ultimi dieci anni, quale sarebbe?
R. Il momento che considero più dirompente per il lusso negli ultimi dieci anni è stato il 2015, con l’arrivo di Alessandro Michele in Gucci e la trasformazione della maison in un laboratorio di identità fluide e citazioni colte. Il debutto a Milano fu un manifesto di intenzioni: una camicia con fiocco di seta, occhiali oversize anni ’70, pantaloni maschili portati con sandali gioiello. Un insieme di elementi apparentemente lontani che, uniti, creavano un linguaggio visivo nuovo, al tempo stesso familiare e sorprendente. Quello fu un momento in cui la moda non si limitò a presentare un’estetica, ma cambiò il vocabolario con cui le persone descrivevano se stesse. Come direbbe Barthes, “l’abito è un testo”: e Gucci, in quel preciso istante, riscrisse il proprio codice narrativo.

Gucci Adv S/S 2016 shot by Glen Luchford

Gucci Adv S/S 2016 shot by Glen Luchford
- Guardando avanti: credi ancora nella moda come linguaggio di rottura e visione, o pensi che il futuro sarà scritto più dai business plan che dagli stilisti?
R. Il futuro della moda sarà segnato da un dialogo costante e, a volte uno scontro, tra creatività e numeri. Il pericolo è che il business plan diventi il direttore creativo invisibile, orientando le scelte estetiche in base a metriche di vendita più che a una visione. Tuttavia, la moda ha dimostrato più volte di saper trovare spiragli di libertà anche nei contesti più rigidi. La sfida sarà individuare figure professionali capaci di far convivere strategia e intuizione, estetica e sostenibilità economica, senza che una prevalga sull’altra. Chi riuscirà a trovare questo equilibrio potrà ancora creare collezioni che incidano nella memoria collettiva e definiscano un’epoca. Perché un’idea, per sopravvivere, ha bisogno di spazio per crescere, ma anche della forza necessaria per resistere alle regole del gioco.
