Coworking pubblico. Gli spazi invisibili dell’apprendimento

Viviana Vitari

Abstract

The experience of the symmetrical shock from Covid19 being  now outlined, usual workspaces seem to be about to hit the rocks. Before falling into old patterns, we had better reflect on hybrid work systems, for example on coworking. The places of culture can be  valid environments for coworking in order to do one’s job and to learn,  at the same time.

Fra workaholism e lavoro agile, domeniche da webshopping e disagi domestici da geolocalizzazione, sembra che la titolarità culturale degli spazi del lavoro post-Covid spetti al “phygital” o meglio ancora alla “phygital experience”.

Non è stata la Samantha di Spike Jones, seducente voce di un sistema operativo per ghostwriters iperconnessi, a farci traghettare in questa dimensione distopica. Parliamo di un fenomeno di massa. Pochi mesi di shock simmetrico sui paesi più ricchi del mondo e la narrazione quotidiana è cambiata. Il digitale ha incorporato lo spazio fisico ed emotivo di tutti e ciascuno, al punto che un sessantenne parla più spesso con Alexa che con sua moglie e un toddler sperimenta l’onlife prima ancora che il pop up dei tre porcellini.

Immediatezza, immersione e interazione, con tanto di puntini sulle “i”. I ponti identitari cambiano il loro design, o perlomeno si congedano da schemi prevedibili.

Osserviamo le nuove forme di capitale sociale di tipo bridging (Richard Putnam), cioè quei legami che nascono dall’incontro di identità sociali diverse: accade fra gli sconosciuti di Lampedusa allo sbarco dei barconi e parimenti fra i volti cristallizzati sullo schermo del nostro ultimo webinar. Osserviamo anche i legami di tipo bonding, fra amicizie e corporativismi, e le nuove aggregazioni di tipo reticolare o le community.

E’ in particolare a questo capitale sociale di tipo bridging cui sembrano adattarsi le nuove forme del lavoro e la scomposizione degli spazi: tutto è diventato ibrido. Qualcuno ha sperimentato il telelavoro, in cui il datore mette a disposizione arredi e attrezzature al dipendente. I più si sono reinventati lo smart working che da situazione opzionale per conciliare vita lavorativa e vita privata si è imposto come esercitazione di salvamento. Altri hanno optato per il lavoro ibrido, muovendosi in maniera funambolica fra opzioni opposte, viste le incertezze. Non ultimo è il coworking. Dimensione da second life a livello internazionale, il movimento sembra contagiare le generazioni dei nuovi adulti silenziosamente creando legami bridging e bonding al contempo. Non inciampa nelle epic fails di un lavoro da scrivanie ravvicinate, nè si impunta sul digitale minuto per minuto.

Se gli spazi privati di coworking seguono la strada aziendale, la novità che il settore pubblico può portare, in particolare tramite luoghi della cultura come le biblioteche, sta nel cogliere le nuove sollecitazioni e non farle estinguere per la mancanza di opportunità. I fabbisogni del cittadino sono ibridi, in parte analogici e in parte digitali, in parte di lavoro e in parte di tempo rubato. Si potrebbe dire ecosofici. Mentre si lavora, di fruisce di nuovo sapere tramite conferenze e chat room. Ci si riposa e si attraversa nella comunicazione multicanale della gamification la propria trasformazione esistenziale.

Il “Mangia prega ama” di Elizabeth Gilbert si carica di nuovi saperi man mano che si attraversano le piattaforme di fruizione e di scambio. Si tratta di forme miste umano-digitali, la cui asimmetria porta a nuovi apprendimenti, che diventano tali perché conoscenza e creatività mal sopportano i centralismi. Il servizio pubblico è chiamato a sperimentare nuove dimensioni del lavoro, ad avere il coraggio che i tempi richiedono. Se il nuovo PNRR punta all’assunzione di nuove competenze per un’Italia diversa, i luoghi della cultura possono affrontare la crisi incoraggiando ad inventare e costruire, mettendo a disposizione nuovi saperi, nuovi passpartout per il futuro. Se è vero come è vero che il luogo può essere pedagogico di per sé, è a questi luoghi storici del sapere che occorre chiedere di fare un salto.

La defibrillazione delle conoscenze e delle risorse può avvenire tramite makerspaces, laboratori, start up che possono nascere o alimentarsi delle risorse proprie delle biblioteche. Dipende dal loro livello di affordance (J.J. Gibson): quali azioni invitano a compiere? Quale tipo di relazione instaurano con le nuove generazioni? Quale ventaglio di opportunità di apprendimento concedono all’utente? Con quali modalità stimolano la sua curiosità di sapere? Quali bloccano invece l’interazione con i documenti e le attrezzature a disposizione, come stampanti 3D, tavole da disegno accanto alla sezione fumetti, flipcam e sportscam, un Arduino accanto alla sezione di libri ad alta leggibilità…

Dentro uno spazio dove oggetti di varie categorie merceologiche si combinano con arredi flessibili e attrezzature miste, oltre che risorse librarie e digitali, anche il modo di lavorare cambia. Si ibrida, richiede forme organizzative collaborative, più informali. Il coworking si instaura lentamente come un ecosistema creativo. Non aspettiamoci comunque che avvenga così spontaneamente neanche in un Paese dove la socialità sembra fenotipica. Occorre che questi nuovi sistemi di lavoro collaborativi vadano accompagnati e governati dalla “cosa pubblica”, esattamente come si prevede che la scuola accompagni le nuove generazioni ad apprendimenti ecosostenibili e cooperativi. Il coworking va inteso sia come realtà educativa che economica (U. Fadini). In quest’ottica va letta la giornata internazionale del coworking che cade il 9 agosto e che per le biblioteche inizia proprio con il 2021.

L’Autore.

Viviana Vitari. Bibliotecaria, con orientamenti in Lifelong learning, filosofia della scienza, multimedia education, intercultura. E’ autrice di articoli e pubblicazioni sulle policy di sviluppo delle biblioteche pubbliche, dopo un primo e lungo imprinting mutuato dall’ambiente di lavoro presso una multinazionale.

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