L’IA come esperienza del limite

di Daniela Cotimbo

Con il titolo Re:define the boundaries, si è aperta nell’ottobre 2020 la seconda edizione del Re:Humanism Art Prize, un programma ancor prima che un premio, dedicato ad indagare le complesse implicazioni che regolano il nostro rapporto con le tecnologie di intelligenza artificiale. 

Se la prima edizione, lanciata nel 2018, nasceva in un contesto in cui, per la prima volta, il mondo prendeva coscienza delle criticità che una tecnologia così promettente, ma anche così pervasiva, potesse rappresentare in termini di discriminazioni, violazioni della privacy e impatto ambientale, la seconda edizione, facendo tesoro di questa consapevolezza, allarga gli orizzonti e offre nuovi possibili approcci alla corsa al progresso scientifico.

Occorre però tener conto che Re:Humanism 2 nasce in un contesto ben preciso che è quello della pandemia, da un lato come inevitabile momento di riflessione nei confronti di una crisi non solo sanitaria ma anche economica e sociale, dall’altro come pronta risposta, desiderio di andare oltre la criticità del momento offrendo agli artisti la possibilità di far sentire la propria voce.

Questo scenario per nulla neutrale diventa il perimetro all’interno del quale collocare nuove riflessioni, relazioni e approcci.

Per tale ragione la seconda edizione, contrariamente alla prima, oltre a voler ridefinire i confini della nostra esperienza con il mezzo tecnologico in sé, proponeva agli artisti cinque questioni individuabili all’interno di altrettante aree tematiche.

Prima fra tutte è quella legata al corpo e all’identità, concetti che diventano sempre più difficili da includere in un’unica cornice concettuale e che le tecnologie contribuiscono a rendere fluidi e mutevoli. La prima edizione aveva già posto l’accento sulla necessità di relazionarsi con un altro tipo di identità che nasce e si sviluppa nella rete e si alimenta delle azioni e delle conversazioni che generiamo, talvolta andando a influire sulle nostre scelte ed espressioni culturali. Dietro queste azioni, vi è un’infrastruttura di algoritmi che le traducono in dati statistici, per poi restituircele sotto forma di esperienze affini, universi chiusi, le cosiddette echo chambers, andando così ad eliminare ogni nostra percezione della diversità. A questo si aggiunge il rapporto con il corpo e con i corpi, che la pandemia ha contribuito a definire in termini di immunità, creando categorie binarie come “sanità” e “malattia” e togliendo al corpo stesso il suo ruolo centrale nella costruzione delle dinamiche relazionali. Le interfacce tecnologiche diventano così i nuovi corpi entro cui si muovono le relazioni, attraverso cui gli sguardi, mediati dalla webcam, si incontrano. I filtri patinati dei social network ci permettono di mostrarci non più per come siamo, ma per come vogliamo essere, adeguandosi però talvolta a modelli predeterminati. Anche la sessualità diventa digitale, là dove il distanziamento impedisce gli scambi corporei, gli strumenti del piacere tecnologici e i mondi virtuali aprono le strade a nuovi desideri finora inesplorati. 

Inevitabile in questo senso anche una riflessione sull’ecologia e sul futuro del nostro pianeta messo in discussione da una crisi climatica finora percepita più come un iperoggetto (così come lo definisce Timothy Morton), un fenomeno la cui vastità ci impedisce una visione globale ma di cui percepiamo le conseguenze. Con la pandemia tale percezione si è amplificata ponendoci di fronte alle dirette conseguenze delle nostre azioni. A questo si aggiunge l’avanzamento delle ricerche scientifiche che ancora una volta mettono in discussione la nostra egemonia in termini di specie privilegiando un approccio non più antropocentrico. A far eco a queste scoperte sono le teorie filosofiche di autricə quali Donna Haraway, Rosi Braidotti o Bruno Latour che vedono nella nascita di nuove relazioni multispecie e postumane l’unico futuro possibile.

I confini di tali esplorazioni si estendono fino a toccare la materia inerte o inorganica le cui classificazioni oggi ci appaiono incomplete al punto da necessitare di essere rinegoziate in termini di appartenenza a concetti quali vita, intelligenza e adattamento all’ambiente. Esplorare questi confini significa dunque porre in questione una distinzione netta tra umano e artificiale, che nella prospettiva di un’intelligenza artificiale sempre più presente in termini di infrastruttura e di hardware ci spinge a chiederci come ci relazioneremo in un futuro prossimo a queste “entità”. In questo senso le prospettive sono molteplici e toccano in maniera molto concreta anche l’ambito del design, spingendo i progettisti a creare interfacce eticamente sostenibili e a chiedersi come esse siano in grado di relazionarsi con un mondo che sta cambiando, siamo nell’ambito dell’antropologia dell’IA.

Restano aperte le questioni sociali e politiche legate ad usi e abusi, se la prima edizione si interrogava sul fallimento di Tay, il chatbot rilasciato da Microsoft nel 2016 per simulare le conversazioni degli adolescenti su Twitter e subito sospeso a causa delle sue derive razziste e sessiste, e sullo scandalo di Cambridge Analytica, Re:Humanism 2 si manifesta successivamente alla decisione di molti governi di bandire tecnologie di sorveglianza e di riconoscimento facciale e ad un crescente movimento per l’affermazione dei diritti delle minoranze e di tutte le categorie marginalizzate. Dietro la promessa di sviluppare algoritmi etici, si cela il pericolo di una cristallizzazione di tali principi che sono invece materia fluida, soggetta a diverse mutazioni.

Infine la seconda edizione lascia aperto il campo alle esplorazioni visionarie sugli sviluppi delle tecnologie di machine learning, robotica e computer vision. Tornano le grandi questioni su cui da secoli l’essere umano proietta sogni e paure; l’immagine di una coscienza autonoma in grado di sostituire molte delle attività finora appannaggio dell’umano non è solo plot fantascientifico, ma rappresenta una possibilità tangibile che ci spinge ancora una volta ad interrogarci su come ripensare il nostro futuro in relazione al lavoro e all’organizzazione del tempo di vita. Quello che è avvenuto in questi due anni è una presa di consapevolezza forte di come dietro alla paura di essere sostituiti da macchine pensanti e alla conseguente promessa di affrancamento dal lavoro alieno si celano, ancora una volta, lavori a basso costo, spesso assegnati a categorie svantaggiate le cui nuove attività non risultano meno svilenti di quelle che hanno sostituito. Tuttavia, lo sguardo della macchina continua ad affascinare gli artisti che utilizzano le potenzialità delle reti neurali per informare futuri e per generare strumenti appannaggio della socialità e della sostenibilità. Attraverso le GAN (Generative Adversarial Network) si sta consolidando una nuova estetica, sempre più presente nei nuovi scenari culturali, dalla musica al cinema, dalla televisione all’arte contemporanea.

Proprio in quest’ultimo ambito si assiste ad un progressivo insediarsi di tali tecnologie, prima utilizzate solo in funzione di un’analisi semiotica del mezzo, oggi utilizzate in virtù della trasmissione di un messaggio e in risposta ai cambiamenti della società.

L’arte riflette sul concetto di interfaccia portandolo alle sue estreme conseguenze, talvolta esaltandone l’estetica, altre volte nascondendola dietro a diversi livelli di lettura. 

Questa seconda edizione di Re:Humanism nasce proprio dalla consapevolezza che le mutazioni sistemiche dovute alle tecnologie di IA non sono materiale per nostalgiche elucubrazioni, al contrario rappresentano fenomeni da leggere in tutta la loro radicale complessità come opportunità per mettere in discussione alcune delle categorie acquisite che riguardano il nostro stesso essere propriamente umani.

Gli artisti utilizzano un approccio speculativo che vede nella tecnologia e nei suoi impatti il potenziale per una riappropriazione di metodi e processi al fine di immaginare nuove possibili traiettorie. Proprio le speculazioni sul futuro del Pianeta (e dei suoi abitanti) fanno da protagoniste di questa edizione, declinate attraverso molteplici sguardi. Gli Entangled Others con Beneath the neural waves 2.0, infatti, ci invitano a ripensare la convivenza sul pianeta attraverso lo studio di ecosistemi complessi come quelli delle barriere coralline e mediante l’utilizzo di una rete neurale. Nuovi intrecci tra specie si articolano all’interno di questo acquario le cui sembianze aliene ci invitano a immaginare nuove simbiosi tra specie, riportando all’attenzione del pubblico la capacità degli ecosistemi naturali di generare forme di convivenza economicamente e socialmente vantaggiose per tutti i loro componenti.

Irene Fenara in Three Thousand Tigers mette in relazione il fenomeno dell’estinzione delle tigri con l’idea di una loro preservazione digitale. Tuttavia, tremila tigri (quantità attualmente stimata dell’effettiva presenza di esemplari ancora esistenti) rappresenta un numero esiguo per la composizione di un dataset per l’addestramento di un sistema di machine learning. In questo scarto quantitativo si cela la profonda distinzione tra un dato epistemologico e l’universo linguistico che lo accompagna. Proprio la fascinazione nei confronti di questo maestoso animale ha progressivamente comportato la sua eliminazione, al punto tale che l’artista sceglie di trasformare gli esiti di questo percorso in una serie di preziosi arazzi realizzati da artigiani indiani che testimoniano come l’intervento umano abbia un ruolo diretto nella graduale scomparsa di questo animale.

L’opera di Yuguang Zhang, (Non-)Human: The Moving Bedsheet, è una delicata riflessione sul rapporto che ci lega agli oggetti di uso quotidiano, con molti di loro interagiamo direttamente come quando strofiniamo il nostro volto su un asciugamano o ci abbandoniamo su un giaciglio, assumendo pose differenti, creando così una relazione intima con l’oggetto. Attraverso un dataset di immagini delle pose assunte durante il sonno, l’artista addestra una rete neurale a generare ulteriori articolazioni nello spazio per poi trasmettere tali movimenti direttamente alla superficie stessa del letto. Seguendo un immaginario animista l’artista associa il movimento propriamente umano all’oggetto, cercando di muoversi al di là e al di qua di quel confine sottile che distingue l’uomo dall’artificio, la forma di vita dalla materia inorganica e incarnando così quel concetto di antropologia dell’intelligenza artificiale che i più recenti studi mirano a delineare.

Sul sottile confine tra esistenza umana e artificiale si muove anche il lavoro di Carola Bonfili che in The Flute-Singing utilizza suggestioni letterarie a partire da testi delle Metamorfosi di Ovidio per addestrare un sistema di generazione di testi GPT alla produzione di una sceneggiatura artificiale, entro il cui scenario virtuale vive e si muove una creatura dalle fattezze aliene che si interroga sulla propria coscienza. L’opera interamente realizzata in CGI (computer-generated imagery) allude ad un futuro non molto lontano in cui le simulazioni artificiali rappresenteranno forme autonome di esistenza ma allo stesso tempo ci invita a riflettere sulle potenzialità creative dei linguaggi narrativi, individuando nella tecnologia un efficace strumento per dilatare i confini di tali narrazioni, riportando nella dimensione virtuale alcune sensazioni di straniamento proprie dell’esperienza umana.

Alla base di suggestioni letterarie si muove anche il progetto del collettivo Numero Cromatico, da tempo impegnato nel creare un ponte tra le scoperte neuroscientifiche e le modalità di fruizione e assimilazione delle opere d’arte. Epitaphs For The Human Artist nasce dallo studio del linguaggio poetico contenuto negli epitaffi, forme spontanee di produzione della memoria di un defunto da parte della collettività, per addestrare una rete neurale alla generazione automatica di tali testi. Spesso di difficile comprensione, queste composizioni mettono in luce la propria natura artificiale, priva di referente. Le parole contenute in questi testi, randomicamente associate a colori diversi, sembrano prevalere sulla struttura compositiva, aprendosi come link o finestre nei confronti di nuovi possibili scenari interpretativi. L’opera che provocatoriamente allude alla morte dell’artista umano, ci fa riflettere sul potenziale creativo di tali tecnologie e al contempo ne sottolinea l’impossibilità di aderenza ad una struttura di senso fondata sull’esperienza.

Anche il lavoro di Egor Kraft, Chinese Ink, nasce dall’analisi di un linguaggio creativo tradizionale come quello dell’antica pittura cinese che, privata dei suoi soggetti figurativi viene usata per addestrare una GAN alla produzione di una dozzina di immagini al secondo, che simulano anche nella gestualità l’effetto dell’inchiostro sulla carta assorbente. Attraverso questo espediente tecnologico l’artista anima questa tecnica tradizionale e ci invita a riflettere su come tali tradizioni sopravvivono e si modificano con l’avanzare del progresso tecnologico.

Mariagrazia Pontorno in Super Hu.Fo* Voynich si cimenta nel tentativo utopico e visionario di tradurre l’antichissimo codice Voynich, un piccolo manoscritto attribuibile al XV secolo, la cui interpretazione è stata oggetto di interesse per molti studiosi tra cui si annovera anche Alan Turing. Attraverso le reti neurali, Pontorno individua forme di attinenza tra le misteriose quanto affascinanti illustrazioni contenute nel testo e la ricorrenza dei caratteri che rivelano approcci esoterici alla natura e alle creature che la popolano. L’intervento dell’IA, seppur presente nel lavoro, è falsato da alcune libere interpretazioni che l’artista sceglie di includere nel dataset per l’addestramento al fine di ottenere una traduzione ibrida, frutto della collaborazione tra linguaggio naturale e artificiale.

Il lavoro del duo Christoforetti-El Sayah, parte dalla tradizione architettonica rinascimentale e dai trattati di Leon Battista Alberti per riconfigurare l’individuo come parte integrante del concetto di urbanistica contemporanea. In Body As Building il machine learning è impiegato dalle due artiste per catturare i volti degli spettatori e fonderli con immagini di architetture moderne proponendo così un nuovo approccio orizzontale al fenomeno dell’edilizia e creando un parallelo tra il concetto di corpo e quello di casa come forme dell’abitare contemporaneo.

Con il corpo ha a che fare anche il lavoro del collettivo Umanesimo Artificiale, la cui ricerca parte dal dato biografico, un’alterazione genetica del DNA (in particolare del gene ABCD1), da cui è affetto uno dei componenti del gruppo e che si manifesta come patologia neurologica. Gli artisti decidono di tradurre questa complessa alterazione in materia sonora grazie all’ausilio degli algoritmi di IA. Il risultato sono due complesse sculture realizzate mediante stampa 3D in cui il DNA “sano” e quello “mutato” si articolano nello spazio emettendo differenti frequenze sonore. L’opera rappresenta una sofisticata quanto significativa esperienza di data visualization ma ci spinge anche a ripensare le categorie di salute e malattia offrendoci tutta la potenza e la varietà delle manifestazioni della natura.

Infine i corpi e le diverse forme di sessualità animano il lavoro di Johanna Bruckner che in Molecular Sex indaga le nuove modalità di relazione interspecie che, basandosi in particolare sulle teorie di Karen Barad, rappresentano i nuovi possibili approcci alla complessità ecologica. La studiosa americana legge infatti nella materia quantica un approccio mutevole e performativo pari a quello delle categorie queer che identificano i corpi e le identità di genere. Moltiplicando i punti di vista e manifestando forme di desiderio ibride, Bruckner ci invita ad aprirci a nuovi approcci al corpo, all’identità e al desiderio, sfruttando l’intelligenza artificiale come strumento in grado di amplificare il potenziale immaginativo attraverso l’apprendimento e la simulazione.

Il percorso di mostra si apre così a molteplici sguardi differenti, evidenziando come l’intelligenza artificiale non sia più esclusivamente riconducibile ad un immaginario fatto di schermi, cavi e batterie al litio ma piuttosto a qualcosa che ci riguarda molto più da vicino, i cui risvolti non sono sempre direttamente individuabili e per cui occorre un costante, impegno critico e speculativo.

www.re-humanism.com 

Daniela Cotimbo (Taranto, 1987) è storica dell’arte e curatrice indipendente di base a Roma. La sua ricerca è focalizzata sull’intercettare le istanze problematiche del presente attraverso il rapporto con i diversi mezzi espressivi, in particolare le nuove tecnologie. Recentemente ha ideato e curato il Re:Humanism Art Prize, primo premio d’arte dedicato al rapporto tra arte e Intelligenza Artificiale. Tra i progetti curatoriali più recenti si ricorda: 2019 – Complessità – performance di Enrica Beccalli e Roula Gholmie per Digitalive, Romaeuropa Festival, Roma; Re:Humanism Art Prize, mostra collettiva, Albumarte, Roma; 2018 – Ionian Archaeological Archives, personale di Marco Emmanuele, Bivy, Anchorage; 2017- Die andere Saite – Massimiliano Tommaso Rezza, Colli Independent art gallery, Roma. Collabora attivamente come contributor per diverse riviste e magazine di settore.