Digitale e uso didattico del Patrimonio Culturale, tra laboratorio e linguaggi della Public History

Gianfranco Bandini, Un. di Firenze, Pamela Giorgi, Indire; Stefano Oliviero, Un. di Firenze [1]P. Giorgi è autrice del § 1, G. Bandini del § 2, S. Oliviero del § 3.

‘Non è la storia che si racconta da sola, ma siamo noi che raccontiamo la storia’ Angela – alunna della scuola primaria G. Fortuzzi (Bologna), a lavoro nella ricerca Indire ‘Il laboratorio di Storia: lo studente come storico alla ricerca delle fonti’

C’è un nuovo passo che caratterizza la didattica del tempo presente: laddove la tecnologia, che ormai ha favorito e favorisce la messa in rete del patrimonio storico culturale e dei corpora documentari e bibliografici, permette crescentemente l’uso didattico sistemico del patrimonio culturale stesso in una prospettiva di rafforzamento del legame tra disciplinaristi, specialisti, conservatori, scuola e territorio, con ricadute forti sull’ampliamento sia dello spazio scolastico così come degli strumenti messi a disposizione della didattica. Questo enorme potenzialità di ampliamento dello spazio tradizionalmente scolastico rende possibile oggi poter ragionare sull’uso in chiave di didattica attiva dell’uso del Patrimonio culturale digitalizzato e digitale e sui linguaggi da utilizzare in rapporto ad esso, per esempio quelli della Public history.

Nell’ambito della ricerca svolta come Indire e che attenziona il Patrimonio culturale, stiamo sperimentando da molto sia, in generale, l’uso del patrimonio culturale nella didattica (PTA Indire 2017-2020 e 2021-2023 nella Struttura 12), sia, più specificatamente, il suo uso nel quadro della didattica della storia,  ove abbiamo sperimentato per un biennio un laboratorio che abbiamo articolato focalizzandoci sull’uso delle fonti (internamente al dipartimento che ricerca sulle Didattiche laboratoriali nelle varie discipline, PTA Indire 2017-2020 e 2021-2023, nella Struttura 1).  

Con i ricercatori e i docenti coinvolti abbiamo e stiamo osservando le possibili ricadute sugli apprendimenti curriculari dell’uso del patrimonio culturale nelle sue forme svariate (immateriale, paesaggistico, digitale …). La prima cosa che emerge è la pluralità degli ambiti disciplinari coinvolti che si connettono a questo stesso uso, che implica sempre il superamento dell’alveo ristretto delle discipline inizialmente da noi analizzate (quali la storia) e classicamente ad esso deputate a tale tema connessi (la storia dell’arte): quindi, quando si fa laboratorio usando il Patrimonio culturale si determina un’inevitabile messa in gioco di più aree disciplinari tra le curricolari. Inoltre, si verifica il rafforzamento di quelle dimensioni che dovrebbero essere transdisciplinari (ma che spesso sono relegate in ambiti quasi liminali rispetto all’ordinaria attività didattica) e che l’uso del Patrimonio Culturale mette, invece, in gioco in modo centrale: quali l’educazione civica, l’educazione alla sostenibilità ed l’educazione al buon uso del digitale. Questo perché nello scambio tra l’oggetto e l’osservatore (tipico dell’uso didattico del Patrimonio Culturale), nella manipolazione seppur virtuale dell’oggetto in ambito laboratoriale prende corpo [2]Poce A. (2020). Il Patrimonio culturale per lo sviluppo delle competenze nella Scuola primaria. Milano: Franco Angeli. 11-21. quella didattica attiva e partecipata che favorisce il costruire le sopraddette competenze chiave. Altro punto che le sperimentazioni effettuate stanno mettendo in luce è che l’uso del patrimonio favorisce l’attuazione di didattiche attive anche nei gradi superiori di istruzione, nei quali, tradizionalmente, il coinvolgimento sensoriale nel percorso di apprendimento diminuisce drasticamente e solo l’ingresso massiccio della tecnologia digitale applicata al patrimonio culturale ha limitato questo limite intrinseco della didattica praticata nei gradi superiori della scuola di base, riaprendola alle potenzialità formative del laboratorio. Non si può non constatare come a livello didattico nella scuola di base le possibilità che le soluzioni tecnologiche ci stanno offrendo sono numerose e si stanno dimostrando particolarmente efficaci: [3]Cfr. Morin E. (2020). La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero nel tempo della globalizzazione. Milano: Raffaello Cortina. ecco che, ad esempio, da un lato, la messa a disposizione progressiva di corpora documentari da parte delle istituzioni preposte alla conservazione o, dall’altro, la possibilità di realizzare percorsi laboratoriali e partecipati in classe, come un prodotto multimediale a partire dal patrimonio culturale o una modellizzazione virtuale, etc, hanno favorito il riemergere anche nei gradi più alti dell’istruzione della pratica attiva, con caratteristiche, come detto, di marca spiccatamente transdisciplinare.[4]Si riporta a tal proposito quanto realizzato da Indire con la Rete Diculther (Digital Cultural Heritage) con gli Hackaton per l’educazione al patrimonio culturale titolarità culturale agli … Continue reading

Divengono adesso centrali alcune questioni: la prima è quella di   individuare e validare modelli ad hoc per un uso didattico del Patrimonio Culturale – traducendolo in nuovi scenari per l’apprendimento nel quadro dello sviluppo delle competenze di base – in una modalità che non sia episodica ma sistemica ed accompagnata da un’attenta riflessione sull’uso critico delle tecnologie, attraverso l’individuazione di “buone pratiche”[5]Così come avevano previsto il Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD) del 2008, poi pilastro della Legge 107 del 2015.. E ciò anche per contravvenire una tendenza connessa ad una ristrutturazione di mentalità che ha influito molto in come siano stati percepiti e recepiti l’approccio al patrimonio storico culturale, alla memoria, al racconto storico, alle varie discipline a questi connesse. In seconda battuta, occorre individuare e favorire i linguaggi più adatti, che pur supportati da un adeguato rigore scientifico, riescano a rappresentare al meglio quelle che sono le caratteristiche che verifichiamo esplicitarsi nell’uso laboratoriale del patrimonio: accessibilità dello stesso e partecipazione. Ecco perché la Public History che valorizza modelli linguistici e di apprendimento che favoriscono sempre di più l’approccio alla memoria attraverso percorsi partecipati che ribaltino le consuete logiche dell’apprendimento gerarchico e trasmissivo. Del resto l’uso sempre più massiccio del WEB, pone come centrale una tra le celeberrime “competenze” che si dovrebbero acquisire a scuola: quella della “capacità critica” di saper cercare e selezionare le informazioni, capacità di cui la storia (appresa in dimensione laboratoriale e partecipata) e non la storia tradizionalmente trasmessa e appresa, è maestra.

Pensiamo, ad una progettazione di percorsi di apprendimento della storia (o di altre discipline) appresa attraverso il patrimonio culturale con i linguaggi partecipati della Public history ove non si imparino tanto conoscenze predefinite e standard, quanto, piuttosto, quell’ “imparare a imparare”, che poi non è altro che l’acquisire la competenza chiave della mentalità critica[4][6]Cfr. Morin E. (2008). Educare gli educatori: Una riforma del pensiero per la Democrazia cognitiva, Roma: Edup..

Uso del Patrimonio Culturale e Public History sono intimamente connessi: l’accesso diretto alle fonti primarie oggi favoritissimo dal digitale e la loro interpretazione critica; il rifiuto di una metodologia puramente trasmissiva; la riconfigurazione da fruitori prevalentemente passivi (il pubblico adulto o gli alunni) a protagonisti attivi del processo di apprendimento; le nuove prospettive di collaborazione transdisciplinare (che il digitale apre); lo stimolare una conoscenza del passato non mnemonica ed episodica, ma organica e problematica, che consideri i suoi processi e le sue ricadute sui problemi del tempo presente, l’apertura al territorio del momento didattico, sono tutti fattori comuni ad entrambi e che hanno tanti punti in comune con le pedagogie costruttiviste alla base delle didattiche attive e laboratoriali verso le quali Indire spinge nella sua attività trasversalmente a tutte le sue progettualità di ricerca.

2_Le memorie delle comunità locali, tra didattica e public history

La scuola si trova in una rete di relazioni che sono in primo luogo quelle del suo territorio, della comunità che vi abita e lavora. Per quanto il confine tra la dimensione locale e quella globale sia oggi più sfumato rispetto al passato, solo la dimensione territoriale è depositaria degli usi, dei costumi, dell’immaginario collettivo che dà forma all’identità personale e comunitaria, assegnando agli oggetti (naturali e artificiali) uno specifico significato. Questo processo di significazione costruisce il patrimonio della collettività, come ci ricorda l’articolo 2 della Convenzione di Faro, uno dei recenti documenti europei con maggiori e evidenti aspetti formativi:

Cultural heritage is a group of resources inherited from the past which people identify, independently of ownership, as a reflection and expression of their constantly evolving values, beliefs, knowledge and traditions. It includes all aspects of the environment resulting from the interaction between people and places through time”.[7]Council of Europe, Framework Convention on the Value of Cultural Heritage for Society, Faro, 27.X.2005, https://www.coe.int/en/web/conventions/full-list/-/conventions/rms/0900001680083746. Massimo … Continue reading

Partendo da questo presupposto, che mette al centro del patrimonio culturale i soggetti e le loro volontà, la dimensione territoriale dell’azione educativa assume un valore cruciale. Le scuole si trovano al centro di un dispositivo formativo che deve necessariamente uscire dalle aule per offrire alla comunità un supporto orientato a costruire (o ricostruire) il senso di appartenenza e il valore della tradizione condivisa. In molti casi non si tratta di un percorso lineare e scontato perché nello stesso territorio vivono più comunità, anche con aspetti conflittuali o di reciproca esclusione.

Per questo motivo lavorare sul patrimonio culturale assume un profondo significato, ben oltre le consuete finalità scolastiche, che dà forma, attraverso l’azione delle scuole come principali attori del processo, a una vera e propria cittadinanza attiva. E’ in questa direzione che si è mossa l’Associazione Italiana di Public History, in particolare attraverso due specifici gruppi di lavoro [8]AIPH, Gruppo di lavoro sulla scuola, coordinato da Agostino Bistarelli, https://aiph.hypotheses.org/il-gruppo-di-lavoro-sulla-scuola; AIPH, Gruppo di lavoro sulla Public History of Education, … Continue reading, dedicati al mondo della scuola e alla stesura di una carta comune di intenti in ambito educativo (il Manifesto della public history of education)[9]Manifesto della Public History of Education, https://aiph.hypotheses.org/files/2021/01/Manifesto_PHofEducation_versione_04-01-21-def.pdf. Cfr. Gianfranco Bandini, Stefano Oliviero (a cura di), Public … Continue reading . Questo tipo di approccio è finalizzato a utilizzare i saperi storici come strumento di conoscenza del passato ma anche di concettualizzazione del presente, di comprensione delle dinamiche trasformative della società, del ruolo di continuità e discontinuità, piuttosto che come un insieme di conoscenze disciplinari definite una volta per tutte e così trasmissibili.

Adottare lo stile dialogico e cooperativo della public history significa estendere il campo d’azione al di là della didattica della storia, in direzione degli insegnamenti trasversali, della formazione dei formatori, del contributo che la scuola può fornire alle comunità del territorio dove si trova a operare[10]Thomas Cauvin (ed), Public History: A Textbook of Practice (New York: Routledge, 2016).. Sono tipici di questa modalità di pensare e fare storia: l’appello alla co-costruzione delle conoscenze, il coinvolgimento attivo di tutti i soggetti, la preoccupazione per gli aspetti riflessivi dei saperi storici[11]Marko Demantowsky (ed), Public History and School: International Perspectives (Berlin: De Gruyter, 2018).. La public history si preoccupa costantemente dei bisogni sociali e vorrebbe proprio partire da essi per “mettere la storia al lavoro”, secondo il pregnante motto della seconda conferenza nazionale dell’AIPH a Pisa[12]Book of abstracts della Seconda conferenza AIPH di Pisa, 11-15 giugno 2018, https://aiph.hypotheses.org/7389..

Quale valore aggiunto può dare questa prospettiva di lavoro educativo? La prima e più importante risposta sta nella possibilità di aprire degli spazi di conoscenza reciproca, di mediazione, di rispetto tra i soggetti e le comunità che abitano in un dato territorio. Non sulla base di sporadici incontri e di dichiarazioni di buona volontà, ma attraverso un vero e proprio ”corpo a corpo” con le memorie personali e comunitarie[13]Gianfranco Bandini, Federico Batini, Caterina Benelli, “Autobiografia e educazione. Corpo a corpo con memoria, lettura e scrittura autobiografica,” Autobiografie, n. 1, 2020, pp. 47-57..

Le problematiche che sorgono in contesti multiculturali e multireligiosi (senza naturalmente escludere le posizioni dei non credenti) non possono essere affrontate lasciando da parte gli aspetti storici, a volte estremamente lontani nel tempo, eppure così profondamente radicati nei vissuti odierni e quotidiani. E’ con questa consapevolezza del valore formativo (e auto-formativo) della storia come percorso di scoperta antropologica, che è possibile operare nella direzione indicata con lungimirante chiarezza dalla Convenzione di Faro che, all’articolo 7, recita:

to develop knowledge of cultural heritage as a resource to facilitate peaceful co-existence by promoting trust and mutual understanding with a view to resolution and prevention of conflicts”.

Per collegare i saperi storici alle questioni dell’oggi, per confrontare esperienze e tradizioni, ci sono ovviamente molte possibilità operative, ma possiamo indicare in prima battuta la via autobiografica, una metodologia che rappresenta un caso peculiare e emblematico, soprattutto per la sua capacità di riannodare passato e presente dei soggetti. L’autobiografia, sia scritta direttamente e per uso privato, sia sollecitata da un “raccoglitore di storie”[14]Caterina Benelli (a cura di), Diventare biografi di comunità. Prendersi cura delle storie di vita nella ricerca pedagogica (Milano: Unicopli, 2013)., può essere considerata – forse paradossalmente – come “il grado zero” della public history perché ne contiene, perfino quando non è rivolta all’esterno, nei suoi tratti intimi, quando scrittore e lettore coincidono, la caratteristica fondante: cioè la capacità di favorire un continuo esercizio riflessivo sul proprio passato, che muove dai bisogni e dalle difficoltà del presente e che, perfino quando è esercizio individuale, non è mero apprendimento di nozioni e non è mai scollegato da contesti storici più ampi.

Utilizzare la raccolta delle memorie come strumento di indagine storica e di animazione culturale significa mettere a confronto le vite dei soggetti piuttosto che le loro posizioni teoriche, far toccare con mano quanto gli aspetti di somiglianza, in particolare quelli legati alla sofferenza e alle difficoltà della vita, superino quelli divisivi[15]Cfr. per esempio, Anna Maria Pedretti, Reggiolo si racconta. Un paese tra memorie individuali e storia collettiva, postfazione di Duccio Demetrio (Milano: Unicopli, 2004); Caterina Benelli, Daniela … Continue reading.

Quale ruolo può giocare il contesto digitale in questo panorama di azioni di ricerca e valorizzazione del patrimonio culturale? Per rispondere dobbiamo ricordare che il contesto nel quale si sviluppa la vita sociale, e quindi anche le esperienze di insegnamento e apprendimento, è sempre più ricco di connessioni digitali. Questa affermazione può sembrare scontata, ma lo è assai meno se teniamo conto del legame profondo con la globalizzazione, dalla quale risulta indissociabile. Il sistema di vita, soprattutto nei grandi agglomerati urbani, vive della costante connessione con il digitale, dal quale risulta sempre più difficilmente distinguibile[16]Luciano Floridi (ed), The onlife manifesto: Being human in a hyperconnected era (SpringerOpen, 2015); Thomas L. Friedman, The World is Flat: The Globalized World in the Twenty-first Century (London: … Continue reading. Pochi anni fa la separazione tra naturale e virtuale era semplice e immediata, ma oggi è sotto gli occhi di tutti un momento epocale. I cambiamenti tecnologici sono stati talmente veloci che, sia nella vita personale che in quella professionale, stentiamo a comprenderne appieno la portata e le implicazioni, a governarne le caratteristiche trasformative. Il dibattito sulle questioni etiche relative all’uso estensivo dell’intelligenza artificiale ne è un segno evidente.

Le pratiche di public history, in questo contesto in continua evoluzione, possono essere potenziate proprio dalla connessione con le risorse digitali, in particolare quando queste ultime sono appositamente costruite per dare maggiori spazi di informazione, dibattito, partecipazione. La digital public history[17]Serge Noiret, “Storia pubblica digitale.” Zapruder. Storie in movimento (2015): 9-23. si è diffusa a macchia d’olio perché consente di utilizzare degli incredibili strumenti di valorizzazione delle esperienze culturali e di vita, anche per comunità territoriali molto piccole e isolate. Non è un caso, infatti, se le minoranze educative, in tutto il mondo, si sono accorte di queste potenzialità e ne hanno fatto un uso autopromozionale, svincolato dalla disponibilità di grosse somme di denaro per attività di comunicazione e di pubblicazione.

Con pochi mezzi, ma con molto impegno e dedizione si possono costruire delle risorse digitali che entrano in relazione con il territorio, restituendone un’immagine sfaccettata e multiforme, ben diversa dalle ripetitive immagini delle cartoline turistiche: accettare l’esistenza di molteplici posizioni di vita, di storie complesse, ricche di significato ma anche dei loro aspetti contraddittori o ambigui, costituisce il primo passo per un percorso di conoscenza reciproca che le comunità territoriali possono compiere fianco a fianco con le istituzioni scolastiche.

3_La Public History of Education tra Scuola e Territorio

Il confronto sugli Usi formativi della memoria: tra linguaggi della PH, Manifesto della Public History of Education e Letteratura del ‘900 a cui siamo chiamati, è un’occasione ancora una volta per poter discutere sull’utilità dei saperi storico-educativi, intorno alla quale stiamo ragionando ormai da un po’ di tempo anche nell’ambito del nostro gruppo di ricerca di storici dell’educazione in forza presso l’Università di Firenze. Un ragionamento però di cui non siamo ancora in grado di restituire i risultati perché tutt’altro che concluso ma, al contrario, ancora in divenire, come d’altro canto sta nella natura stessa di questo genere di riflessioni. La Public History of Education (PHE) poi, in particolare, come approccio implica per sua natura il mutamento e l’adattamento progressivo e incessante al contesto in cui a mano a mano si colloca[18]G. Bandini, S. Oliviero (eds.) (2019). Public History of Education: riflessioni, testimonianze, esperienze, Firenze: FUP.

Per passare però al cuore di questo intervento, bisogna anzitutto ricordare che la storia dell’educazione, è noto, è una disciplina di confine fra i saperi storici che di volta in volta ibrida altre scienze umanistiche, sociali, economiche… le arricchisce o si arricchisce a sua volta. Allo stesso tempo però è una disciplina di confine anche fra i saperi pedagogici: a lungo sbilanciata sul versante teoretico o confinata in ambiti circoscritti come la scuola e l’infanzia, per lasciarsi poi tentare da altre influenze e diventare quindi sociale oppure culturale, condividendo il rigore metodologico delle scienze storiche grazie al quale ha aperto pure, più di recente, agli studi sulla cultura materiale[19]C. Betti (2016). La ricerca storico-educativa tra ieri e oggi: linee di sviluppo, punti di svolta, nuove frontiere, in M. Muscarà, S. Ulivieri (a cura di). La ricerca pedagogica in Italia. Atti … Continue reading. Insomma, la storia dell’educazione è stata a lungo in bilico fra un approccio vicino alle altre scienze storiche, condividendone il rigore metodologico, ed uno invece ibridato dai saperi educativi, ma pure in bilico fra le scienze storiche e quelle pedagogiche per finire spesso per non avere pieno diritto di cittadinanza in entrambi i versanti[20] C. Betti (2021). «Come può uno scoglio arginare il mare…». Ripensare il ruolo degli storici, in A. D’Orsi, F. Chiarotto (eds.), Il diritto alla storia. Saggi, testimonianze, … Continue reading

La PHE, certo accanto ad altri approcci interpretativi della storia dell’educazione, può così dare un aiuto a colmare questa lacuna epistemologica, o almeno dare un contributo a riflettere intorno a questa incertezza. E la ricerca di sinergie virtuose tra scuola e territorio è un ottimo banco di prova per questo scopo perché costringe a forzare il piano teorico su quello pratico e a condividere tra soggetti diversi percorsi e progetti. Dunque, come accennato negli interventi che precedono queste pagine, perfettamente in linea con le caratteristiche specifiche della PHE e con la vocazione naturale ad agire propria della storia dell’educazione. Un esempio di pratica diffusa può esser la costruzione di memorie condivise non per imposizione, come talvolta sembrano lasciare intendere alcune tendenze culturali più che storiografiche[21]M. Flores (2020). Cattiva memoria. Perché è difficile fare i conti con la storia, Bologna: Il Mulino., ma attraverso un processo di raccolta e di condivisione delle memorie individuali per comporre poi le identità collettive di piccole o grandi comunità[22]Cfr. G. Bandini, S. Oliviero, cit..

Francesco De Bartolomeis, uno degli esponenti più lucidi della pedagogia italiana, in un suo celebre libretto sul tempo pieno pubblicato nel 1972, affrontò proprio il problema dell’incontro tra la scuola e ciò che ne stava fuori e descrisse con efficacia questa sorta di inibizione, questa immobilità in cui veniva a trovarsi la ricerca pedagogica appunto “costretta a non uscire dal piano teorico necessario ma frustrante a causa dell’impatto di condizioni obiettive che ostacolano l’applicazione; quando tenta di uscirne rischia di risultare dannosa o di rendere più rigide le risposte conformistiche ed evasive in quanto non trova l’alleanza di una serie di necessari appoggi sociali. Il dubbio assale non solo il valore scientifico della pedagogia, ma la sua stessa esistenza. La pedagogia può vivere a patto che le speranze di rinnovamento sociale non siano spente”[23] F. De Bartolomeis (1972). Scuola a tempo pieno, Milano: Feltrinelli, p. 61. . Per stabilire un rapporto efficace sotto il profilo educativo fra scuola e territorio, sosteneva infatti sempre in quell’occasione De Bartolomeis, è necessario, che la scuola discuta anzitutto criticamente sé stessa come istituzione sociale, ma soprattutto che si misuri con le contraddizioni della società, pena la sua stessa esistenza. De Bartolomeis, come è noto, nel corso della seconda metà del Novecento è tornato a più riprese su questo concetto che d’altra parte risultava esser abbastanza condiviso e rilanciato in certi ambienti della pedagogia italiana[24] F. De Bartolomeis (1953). La pedagogia come scienza, La Nuova Italia: Firenze; F. De Bartolomeis (1969). La ricerca come antipedagogia, Milano: Feltrinelli.. Basta pensare ad Antonio Santoni Rugiu, il quale non ha mancato ciclicamente di riprendere il discorso sul fondamento scientifico della pedagogia[25] A. Santoni Rugiu (1975). Crisi del rapporto educativo, Firenze: La Nuova Italia., fino ad inventare sull’argomento, come era nel suo stile, storielle comiche come quella del suo collega “accanito negatore dell’ipotesi dell’esistenza plausibile di una degna disciplina detta Pedagogia, il quale per coerenza con quell’assunto si sentiva costretto a negare perfino l’esistenza fisica dei pedagogisti, e quindi preventivamente gli avvisava di non offendersi se non li avrebbe mai salutati ne interpellati, come fossero per lui esseri invisibili. Se li avesse salutati o avesse attaccato discorso con loro sarebbe incorso lui stesso in una ‘contraddizione in termini’ e un rigoroso studioso di logica come lui non poteva permetterselo, se no che figura avrebbe fatto di fronte ai colleghi e agli studenti? Il sillogismo alla base del ragionamento era semplice: se non ha titolo di esistere la Pedagogia, i pedagogisti trattano di Pedagogia, ergo neppure i pedagogisti hanno titolo a esistere. Ovvero chi tratta del nulla, rischia di esser nullo lui medesimo”[26] A Santoni Rugiu (2003). La pedagogia del consumismo e del letame, Roma: Anicia, pp. 8-9..

L’approccio storico educativo, e in particolare nella prospettiva della PHE, fra le altre cose può allora esser utile ad arginare questo rischio perché costringe a confrontarsi con questioni materiali e circoscritte, specialmente misurandosi nella relazione fra storia e territorio alla quale può fornire un sicuro apporto la lettura critica della realtà.

Il dibattito su scuola e territorio poi è senza dubbio di stretta attualità. Le imposizioni della pandemia mondiale hanno infatti inciso pesantemente sull’organizzazione dell’istruzione e hanno offerto l’opportunità per ripensarne ancora una volta il ruolo e la funzione nei confronti del contesto sociale, produttivo, culturale… occasione, a dire il vero, che pare esser rimasta sospesa in favore invece di una lettura della scuola come luogo di custodia prima che di apprendimento o, in senso più generale, prima che luogo educativo.

Tuttavia, al di là degli effetti delle recenti restrizioni su cui è presto per dare una lettura approfondita, la scuola, da parte sua, aveva già intrapreso da tempo il cammino per mettersi in connessione con il territorio e con il mondo. Solo per richiamare alcuni passaggi di questa relazione possiamo pensare alla già evocata introduzione della scuola a tempo pieno nel 1971. Grazie al tempo pieno fu avviata peraltro una riflessione, ancora oggi fondamentale per interpretare il rapporto tra scuola e territorio, sul concetto di socializzazione che di certo non consiste nel significato deteriore attribuito a questo termine dai media mainstream in riferimento alle supposte privazioni indotte dalla cosiddetta didattica a distanza, ovvero semplicemente stare insieme agli altri, ma semmai mettere in relazione la scuola e i suoi allievi con il contesto sociale ed economico. Pochi anni dopo, fra il 1973 e il 1974, i Decreti delegati fecero del rapporto fra scuola e territorio un loro asse portante nelle disposizioni di apertura degli istituti alle famiglie e in particolare con l’avvio dell’esperienza dei distretti scolastici che insistevano proprio sul rapporto biunivoco fra scuola e comunità democratica[27]Decreto Presidente Repubblica 31 maggio 1974, n. 416.. I provvedimenti legislativi degli anni Novanta culminati nell’autonomia scolastica hanno poi messo a sistema la relazione tra scuola ed extra scuola, lasciando agli operatori e ai decisori politici successivi una discreta libertà di interpretarne le potenzialità. Una scuola integrata con la società o con il territorio, oppure subordinata alle dinamiche produttive ed economiche? Le letture che protendono per la seconda opzione non mancano e hanno trovato una solida sponda pure nella legge 107[28] S. Oliviero (2021). La scuola nella società delle gomitate, in S. Santamaita, Storia della scuola, Milano-Torino: Pearson, pp. 249-264.. In ogni modo le Indicazioni nazionali per il curriculo del 2012 danno un indirizzo chiaro sulla centralità, fra le funzioni e le finalità della scuola, dell’interazione con le espressioni del territorio e dell’incontro degli studenti con il mondo, indirizzo rafforzato con i Nuovi scenari del 2018[29]Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, “Annali della Pubblica Istruzione”, Numero Speciale, 2012; … Continue reading.

La PHE in definitiva può e deve inserirsi in questo processo sinergico già avviato per rafforzare la presenza della storia nella scuola, per promuovere l’approccio storico come elemento trasversale per favorire i processi di apprendimento e infine per supportare la costruzione delle comunità educative. 

Gli Autori:

Gianfranco Bandini è professore ordinario di Storia della Pedagogia presso l’Università di Firenze. E’ autore di pubblicazioni su tematiche pedagogiche e educative Otto-Novecentesche in chiave storico-sociale, con particolare attenzione alla riflessione etodologico-storiografica e all’approccio della Public History. Dal 2016 è co-direttore della “Rivista di storia dell’educazione”.

Pubblicazioni recenti:

  • Gianfranco Bandini (2020). Humanism and New Atheism: experiences and proposals of an educational minority. Historia y Memoria de la Educación, vol. 12, pp. 23-55.
  • Gianfranco Bandini, Véronique Francis (2020). Corporal punishment at school and in the family: a long process for its complete elimination. Rivista Italiana di Educazione Familiare, vol. 16, pp. 1-9.
  • Gianfranco Bandini, Stefano Oliviero (eds.) (2019). Public History of Education: riflessioni, testimonianze, esperienze, Firenze: Firenze University Press, pp. 258.

Pamela Giorgi è ricercatore presso l’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa (Indire) e si occupa   principalmente del patrimonio storico documentario del Novecento, con un focus su archivi di personalità e materiale scolare.

Stefano Oliviero Professore Associato di Storia della Pedagogia presso il dipartimento di Formazione, Lingue, Intercultura, Letterature e Psicologia (FORLILPSI) dell’Università di Firenze, insegna Storia dell’educazione e Storia dei processi formativi. I suoi interessi di ricerca si sono concentrati in un primo momento sulla storia politica e sociale delle istituzioni scolastiche ed educative e sulla storia dell’editoria scolastica e della diffusione dei libri. Negli ultimi anni ha invece dedicato i suoi studi alla storia dell’istruzione di massa e dei giovani, alla storia dell’infanzia e delle memorie scolastiche e educative. Il filone principale di ricerca a cui sta dedicando attualmente maggiore attenzione è però il rapporto tra educazione e consumo nel corso del tempo e alle tematiche che ruotano intorno alla Public history in campo educativo. È responsabile scientifico del portale www.memoriedinfanzia.it. Fra le sue pubblicazioni: Educazione e consumo nell’Italia repubblicana (Milano 2018); Public History of Education: riflessioni, testimonianze, esperienze (con G. Bandini, Firenze 2019).  

References

References
1 P. Giorgi è autrice del § 1, G. Bandini del § 2, S. Oliviero del § 3.
2 Poce A. (2020). Il Patrimonio culturale per lo sviluppo delle competenze nella Scuola primaria. Milano: Franco Angeli. 11-21.
3 Cfr. Morin E. (2020). La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero nel tempo della globalizzazione. Milano: Raffaello Cortina.
4 Si riporta a tal proposito quanto realizzato da Indire con la Rete Diculther (Digital Cultural Heritage) con gli Hackaton per l’educazione al patrimonio culturale titolarità culturale agli studenti. Indire partecipa, infatti, come partner alla Rete DiCultHer sin dalla sua costituzione nel febbraio 2015, #HackCultura è l’hackathon degli studenti per la “titolarità culturale” finalizzato allo sviluppo di progetti digitali da parte degli studenti delle scuole italiane, per favorire nei giovani, in un’ottica di “titolarità culturale”, la conoscenza e la “presa in carico” del patrimonio culturale nazionale. In tale ambito abbiamo lavorato ad una serie di azioni e riflessioni per ripensare i processi di digitalizzazione del patrimonio culturale, sia di co-creazione del digitale quale espressione sociali e culturali dell’epoca contemporanea, nella prospettiva di concorrere alla creazione delle competenze necessarie per approcci e metodi di lavoro con il Digital Cultural Heritage, basandosi su criteri chiari e omogenei per validarle e certificarle come memoria e fonte storica. Alla selezione e al vaglio delle fonti (competenza quanto mai indispensabile al giorno d’oggi) si aggiungono tra gli obiettivi didattici da perseguire, la comprensione del significato del valore del patrimonio culturale. Al riguardo è prevista, con il contributo di Indire, una ulteriore iniziativa per supportare le scuole stesse nella fase di documentazione del percorso/progetto: lo scopo è quello di valorizzare maggiormente i progetti trasformandoli in buona pratica che possa ispirare a sua volta altre scuole.
5 Così come avevano previsto il Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD) del 2008, poi pilastro della Legge 107 del 2015.
6 Cfr. Morin E. (2008). Educare gli educatori: Una riforma del pensiero per la Democrazia cognitiva, Roma: Edup.
7 Council of Europe, Framework Convention on the Value of Cultural Heritage for Society, Faro, 27.X.2005, https://www.coe.int/en/web/conventions/full-list/-/conventions/rms/0900001680083746. Massimo Montella, et al., “La Convenzione di Faro e la tradizione culturale italiana/The Faro Convention and the Italian cultural tradition,” Il capitale culturale. Studies on the Value of Cultural Heritage (2016): 13-36.
8 AIPH, Gruppo di lavoro sulla scuola, coordinato da Agostino Bistarelli, https://aiph.hypotheses.org/il-gruppo-di-lavoro-sulla-scuola; AIPH, Gruppo di lavoro sulla Public History of Education, coordinato da Gianfranco Bandini, https://aiph.hypotheses.org/il-gruppo-di-lavoro-sulla-public-history-of-education.
9 Manifesto della Public History of Education, https://aiph.hypotheses.org/files/2021/01/Manifesto_PHofEducation_versione_04-01-21-def.pdf. Cfr. Gianfranco Bandini, Stefano Oliviero (a cura di), Public History of education: riflessioni, testimonianze, esperienze (Firenze: Firenze University Press, 2019).
10 Thomas Cauvin (ed), Public History: A Textbook of Practice (New York: Routledge, 2016).
11 Marko Demantowsky (ed), Public History and School: International Perspectives (Berlin: De Gruyter, 2018).
12 Book of abstracts della Seconda conferenza AIPH di Pisa, 11-15 giugno 2018, https://aiph.hypotheses.org/7389.
13 Gianfranco Bandini, Federico Batini, Caterina Benelli, “Autobiografia e educazione. Corpo a corpo con memoria, lettura e scrittura autobiografica,” Autobiografie, n. 1, 2020, pp. 47-57.
14 Caterina Benelli (a cura di), Diventare biografi di comunità. Prendersi cura delle storie di vita nella ricerca pedagogica (Milano: Unicopli, 2013).
15 Cfr. per esempio, Anna Maria Pedretti, Reggiolo si racconta. Un paese tra memorie individuali e storia collettiva, postfazione di Duccio Demetrio (Milano: Unicopli, 2004); Caterina Benelli, Daniela Bennati, Sara Bennati, Restituire parole. Una ricerca autobiografica a Lampedusa (Milano-Udine: Mimesis, 2019).
16 Luciano Floridi (ed), The onlife manifesto: Being human in a hyperconnected era (SpringerOpen, 2015); Thomas L. Friedman, The World is Flat: The Globalized World in the Twenty-first Century (London: Penguin, 2007).
17 Serge Noiret, “Storia pubblica digitale.” Zapruder. Storie in movimento (2015): 9-23.
18 G. Bandini, S. Oliviero (eds.) (2019). Public History of Education: riflessioni, testimonianze, esperienze, Firenze: FUP.
19 C. Betti (2016). La ricerca storico-educativa tra ieri e oggi: linee di sviluppo, punti di svolta, nuove frontiere, in M. Muscarà, S. Ulivieri (a cura di). La ricerca pedagogica in Italia. Atti della seconda Summer School SIPED, Pisa: ETS, pp. 51-65.; A. Barausse, T. De Freitas Ermel, V. Viola (eds.) (2020). Prospettive incrociate sul patrimonio storico educativo: atti dell’Incontro internazionale di studi, Campobasso, 2-3 maggio 2018, Lecce: Pensa multimedia.
20  C. Betti (2021). «Come può uno scoglio arginare il mare…». Ripensare il ruolo degli storici, in A. D’Orsi, F. Chiarotto (eds.), Il diritto alla storia. Saggi, testimonianze, documenti per «Historia Magistra» (2009-2019), Torino: Accademia Univeristy press,  pp. 38-51
21 M. Flores (2020). Cattiva memoria. Perché è difficile fare i conti con la storia, Bologna: Il Mulino.
22 Cfr. G. Bandini, S. Oliviero, cit.
23  F. De Bartolomeis (1972). Scuola a tempo pieno, Milano: Feltrinelli, p. 61.
24  F. De Bartolomeis (1953). La pedagogia come scienza, La Nuova Italia: Firenze; F. De Bartolomeis (1969). La ricerca come antipedagogia, Milano: Feltrinelli.
25  A. Santoni Rugiu (1975). Crisi del rapporto educativo, Firenze: La Nuova Italia.
26  A Santoni Rugiu (2003). La pedagogia del consumismo e del letame, Roma: Anicia, pp. 8-9.
27 Decreto Presidente Repubblica 31 maggio 1974, n. 416.
28  S. Oliviero (2021). La scuola nella società delle gomitate, in S. Santamaita, Storia della scuola, Milano-Torino: Pearson, pp. 249-264.
29 Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, “Annali della Pubblica Istruzione”, Numero Speciale, 2012; https://www.miur.gov.it/documents/20182/0/Indicazioni+nazionali+e+nuovi+scenari/