L’inclusione tra legislazione e realizzazione

a cura di Lorella Cela*

Abstract

Il focus del presente lavoro riguarda le forme di tutela delle persone con disabilità contenute nei principi costituzionali italiani, contestualizzati nell’attuale quadro normativo europeo e più ampiamente internazionale. L’analisi parte dalla cesura data dall’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana che inquadra i disabili quali soggetto di diritto. Su uno sfondo che evidenzia le peculiarità della situazione italiana in termini di

inclusione, si ripercorre da un punto di vista legislativo e statistico l’evoluzione scolastica, lavorativa e sociale delle persone con disabilità.

Parole chiave

Inclusione, Legislazione, Istruzione, Inserimento lavorativo

Introduzione

La disabilità è sempre più presente nella società odierna: basti considerare che in Italia circa 3.100.000 persone soffrono di gravi limitazioni (Istat, 2019), entro l’anno corrente si prevede che un quinto della popolazione dell’Unione Europea presenterà una qualche forma di disabilità, mentre nel mondo secondo il rapporto mondiale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 2011), nel 2011, le persone disabili erano oltre un miliardo.

Obiettivo di questo scritto è inquadrare ed analizzare la posizione delle persone con disabilità nell’ordinamento costituzionale italiano anche in relazione al contesto europeo e più ampiamente internazionale. Il focus sarà poi orientato sulla situazione italiana in termini di inclusione scolastica, lavorativa e sociale delle persone con disabilità. La riflessione parte dalla cesura data dall’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana: quando anche i disabili diventano soggetto di diritto ossia nel 1948. Su uno sfondo che evidenzia le peculiarità della situazione italiana in termini di inclusione, cercherò di cogliere l’evoluzione scolastica, lavorativa e sociale delle persone con disabilità, sottolineando l’introduzione delle garanzie costituzionali della Repubblica Italiana.

Legislazione nazionale, comunitaria e internazionale nell’ambito della disabilità

Prima di affrontare quest’analisi è necessario ricordare che fino alla metà dell’Ottocento le persone con disabilità venivano inserite all’interno della stessa categoria sociale a cui appartenevano gli indigenti: soggetti di generica assistenza. Si riscontra un intervento diretto dello Stato solo nel primo dopo guerra, in quanto era necessario che venissero presi provvedimenti specifici per la categoria degli invalidi e dei mutilati di guerra. La tutela delle persone con disabilità all’interno della Costituzione repubblicana italiana si esprime principalmente attraverso quattro articoli: gli artt. 2 e 3[1] – contenuti nei principi fondamentali – e gli artt. 34 e 38 – contenuti nella parte prima diritti e doveri dei cittadini rispettivamente al titolo II e al titolo III.
Nell’art. 2 si afferma che:

«La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.»
Questo riconoscimento diventa fondamentale per garantire una protezione legale e sociale anche ai soggetti assistenziali. Traspare all’interno di questo articolo una forte consapevolezza che sottolinea come riconoscere e garantire i diritti fondamentali non basti per superare determinate disuguaglianze: per questo si inserisce il concetto di solidarietà.

In questo modo la Repubblica, e quindi i suoi cittadini, hanno un dovere nei processi di superamento delle disuguaglianze (Belli, 2014). Se nell’art. 2. diventa centrale la garanzia dei diritti agli esseri umani in quanto tali, è nell’art. 3. che si elabora una configurazione giuridica dell’uguaglianza distinguendo quella formale da quella sostanziale.

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.»[2]

L’art. 3 comma 1 sancisce l’uguaglianza tra tutti i cittadini, o meglio tra tutte le persone, che sono quindi uguali davanti alla legge.

«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.» [3]

Il citato articolo al comma 2 sottolinea inoltre come l’unico modo per arrivare ad una condizione di uguaglianza all’interno di un contesto eterogeneo è quello di applicare un principio di equità. Sarebbe surreale infatti considerare le persone come tutte uguali[4] quando vi sono evidentemente una molteplicità di differenze, che vanno esaltate e non appianate: l’unico modo per garantire ciò è far sì che ognuno abbia i mezzi necessari per potersi realizzare.

Se con i due articoli riportati la Costituzione riconosce pari dignità a tutti i cittadini, gli artt. 34 e 38 estendono la parità di diritti anche a livello scolastico, lavorativo e di conseguenza sociale. In tali articoli la scuola è innanzitutto «aperta a tutti»[5] e «gli inabili e i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale»[6]. In esecuzione di quest’ultimo punto è stata emanata la L. 68/1999[7], con la quale si stabilisce l’obbligo per il datore di lavoro di assumere lavoratori con disabilità, tutto ciò in relazione e proporzione dei dipendenti che l’azienda impiega.
Uno dei primi atti normativi che ha introdotto il modello innovativo di integrazione scolastica caratterizzante il sistema italiano è la L. 118/1971 che stabilisce l’obbligo scolastico degli alunni con disabilità ad eccezione dei portatori di patologie gravi, come ad esempio disabilità intellettive o motorie particolarmente invalidanti come nel caso dei tetraplegici (Impellizzeri, 2019). In seguito, con la L.517/1977, sono state abolite le classi differenziali e nel 1987 è stato garantito, almeno formalmente, l’accesso all’istruzione superiore e universitaria.

Il diritto all’istruzione, all’educazione, alla formazione professionale e all’integrazione scolastica viene ribadito e raccolto nella legge quadro in materia di handicap: la L.104/1992[8], che risponde all’obiettivo di uniformare in tutto il territorio nazionale i diritti costituzionali dei soggetti con disabilità. Con la L.104/1992 si sottolinea ancora come l’obiettivo fondamentale sia quello di un’integrazione della persona con disabilità «nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società»[9] e non di un “semplice” inserimento all’interno della società.

Come si può notare anche attraverso le variazioni del linguaggio a livello giuridico[10], le finalità e l’obiettivo principale sono il superamento, ma anche il livello dell’integrazione[11] necessari per conseguire l’inclusione[12] delle persone con disabilità nel contesto scolastico e conseguentemente nel tessuto sociale (Dall’Isola, 2016).

È importante analizzare la situazione italiana anche in relazione ai contesti europeo ed internazionale nel quale è inserita. Il primo riguarda la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che ha come scopo quello di sistematizzare una serie di diritti personali, civili, politici, sociali ed economici nella normativa dell’Unione europea; nel caso delle persone con disabilità ci si riferisce specificatamente all’art. 26 nel quale

«LUnione riconosce e rispetta il diritto dei disabili di beneficiare di misure in tese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità».

A livello internazionale va ricordata la convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, approvata dall’assemblea Generale delle nazioni unite il 13 dicembre 2006. Nello specifico il tema dell’educazione viene affrontato dall’art. 24, in cui si riconosce alle persone con disabilità il diritto all’istruzione e agli Stati Parti il compito di garantire «un sistema di istruzione inclusivo a tutti i livelli ed un apprendimento continuo l’accessibilità alle persone con disabilità».

L’ambito del lavoro e dell’occupazione viene definito invece con l’articolo 37, all’interno del quale «gli Stati Parti riconoscono il diritto al lavoro delle persone con disabilità […] in un ambiente lavorativo aperto, che favorisca l’inclusione e lungo tutto l’arco della vita»[13] .

Un concetto che ritorna spesso all’interno della convenzione, ad esempio nei due articoli sopra citati, è quello di “accomodamento ragionevole”. Con questa espressione si indicano «le modifiche e gli adattamenti necessari […] per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali»[14].

Questa precisazione riguardante quelli che vengono definiti come adattamenti necessari va a sottolineare ulteriormente come l’equità sia un principio fondamentale per poter arrivare ad una uguaglianza. Personalmente ritengo che per garantire e permettere una vera inclusione all’interno del tessuto sociale sia fondamentale dare alle persone con disabilità la libertà di scegliere, come affermato nell’art. 19, «il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione», è necessario infatti che detti soggetti abbiano accesso a una serie di servizi tra cui «lassistenza personale necessaria per consentire loro di vivere nella società ed inserirvisi e impedire che siano isolate o vittime di segregazione»[15]. Quella dell’assistenza personale è un supporto che permette alle persone con disabilità di vivere la vita quotidiana in modo diverso rispetto alle modalità previste dai modelli assistenziali tradizionali, che considerano come forma di supporto per i disabili la rete familiare. Questo innovativo concetto assistenziale è nato intorno agli anni 70 del secolo scorso dai movimenti per i diritti dei disabili, soprattutto in Regno Unito, Nord America e paesi del Nord Europa (Shakespeare, 2017, p.177). Nonostante i modelli di assistenza personale varino nei diversi paesi, il punto fondamentale di questo servizio è il controllo dello stesso da parte della persona con disabilità, e ove è possibile di scegliere il lavoratore, nonché con quali mansioni e in che modo gestire il proprio tempo e le proprie attività (Shakespeare, 2017, p.178). Questa modalità di assistenza permette una forma di indipendenza che non sarebbe possibile all’interno di un modello assistenziale basato solamente sul network familiare. Bisogna infatti considerare che vi è una relazione diversa nei due modelli di assistenza: se nel primo caso la relazione è definita in termini contrattuali, il che non esclude assolutamente la presenza di emozioni all’interno di questo rapporto, nel secondo caso il legame parentale può andare ad influire in modo eccessivo sulla relazione assistenziale non permettendo alla persona con disabilità la piena e totale realizzazione in diversi ambiti. Nel momento in cui il rapporto non è regolato in termini contrattuali si rischia che la persona con disabilità viva l’assistenza in termini di gratitudine (Morris, 1993) alimentando quello stigma secondo cui la persona con disabilità riceve molto più rispetto a ciò che dà all’interno di un rapporto. 

Nel contesto italiano – nonostante il Parlamento abbia autorizzato la ratifica della convenzione delle Nazioni Unite – manca una normativa che garantisca l’autodeterminazione delle persone con disabilità nel vivere la loro vita in modo indipendente. L’assenza di fondi economici per l’assistenza personale fa sì che questo costo ricada sulle persone con disabilità e sulle loro famiglie, nei casi in cui questo costo non è sostenibile si alimenta quel modello assistenzialistico tradizionale che non permette il pieno sviluppo della persona previsto dai nostri principi costituzionali.

Scuola, lavoro e vita sociale: il quadro italiano in termini statistici

In questo paragrafo esporrò la situazione italiana nell’ambito dell’inclusione scolastica, lavorativa e sociale. Per osservare in che modo vi sia stata una realizzazione dei diritti sopra descritti, mi baserò principalmente sui dati dell’Istituto Nazionale di Statistica (Istat). Secondo Istat nel 2017 in Italia vi erano 3,1 milioni di persone con disabilità corrispondenti al 5,2% della popolazione, tra esse la metà di coloro che presentano gravi limitazioni ha più di 75 anni.

In questa situazione, il 17,1% delle donne e il 9,8% degli uomini con disabilità sono senza titolo di studio mentre il 30,1% degli uomini e il 19,3% delle donne ha raggiunto un titolo di studio elevato. Queste differenze si stanno riducendo all’interno del contesto in cui si verifica maggiore inclusione scolastica. Un rapporto dell’Istat (2020) riguardante l’inclusione degli alunni con disabilità nell’anno scolastico 2018-2019 conferma che, attualmente, è in aumento il numero di alunni disabili che frequentano le scuole italiane: nell’anno scolastico in questione in Italia erano presenti complessivamente 55.209 scuole e il 3,3% degli alunni iscritti presentava disabilità. Il problema che appare in modo più evidente è quello legato alle barriere architettoniche presenti all’interno della scuola, solamente una su tre risulta infatti accessibile agli studenti che presentano una disabilità motoria: nella media nazionale che registra il 33,4% delle scuole come accessibile, la situazione è migliore al Nord, – 38,5% delle scuole a norma – e presenta livelli più bassi nel Mezzogiorno – 29,4% delle scuole a norma -. Per quanto riguarda le barriere senso percettive solo il 2% delle scuole dispone di tutti gli ausili necessari e si riconfermano le differenze tra Nord e Mezzogiorno. Negli ultimi anni è stato riscontrato un aumento del numero di insegnanti di sostegno, che si affianca però alla carenza di insegnanti di sostegno specializzati. Nel 36% dei casi, infatti, i docenti non hanno una formazione specifica nel campo della disabilità e questo avviene soprattutto al Nord con una percentuale del 47%, mentre si riduce nel Mezzogiorno con il 21% di insegnanti curriculari. Se osserviamo quali indirizzi scolastici vengono scelti maggiormente dalle persone con disabilità possiamo notare che vi è la tendenza alla scelta di quelli tecnico professionali piuttosto che liceali, probabilmente perché i primi non richiedono una continuazione del percorso di formazione che sfocia nel contesto universitario. Questa teoria trova riscontro anche nei dati che mostrano come nell’anno 2016-2017 – sul totale degli iscritti – solo lo 0,95% ha avuto accesso all’esonero parziale o totale del pagamento delle tasse a causa della disabilità. È necessario precisare che non si hanno informazioni in merito alla presenza degli studenti con disabilità nelle università italiane, ad oggi infatti questo ambito viene indagato solo attraverso la rilevazione del Miur, che utilizza per l’appunto come dato il numero di persone che hanno diritto all’esonero delle tasse (Istat, 2019, p. 48).

Le difficoltà appena descritte per quanto riguarda l’inclusione scolastica permettono di comprendere meglio la situazione italiana in termini di inclusione lavorativa: nel mercato del lavoro sono occupate solo il 31,3% delle persone con limitazioni gravi tra i 15 e i 64 anni, condizione di svantaggio che è ancora più evidente per le persone con disabilità di sesso femminile: delle quali risulta occupata solo il 26,7% contro il 36,3% dei maschi. Altro fattore discriminante è il livello di istruzione, come già accennato, il 63,4% di coloro che presentano titoli di studio elevati (laurea o più), il 42,7% dei diplomati e solo il 19,5% di chi ha al massimo la licenza media – scuola dell’obbligo -. Riconsiderando la difficoltà nel conseguire titoli di studio elevati, come analizzato precedentemente, questi dati erano abbastanza prevedibili; anche perché non si differenziano, in termini teorici, dal trend degli occupati non affetti da disabilità. L’importanza della L.68/99 nei processi di inclusione lavorativa è sicuramente innegabile, ma è necessario che essa venga accompagnata da una costante sensibilizzazione e da una cultura organizzativa che si preoccupi di mettere tutti i soggetti in condizioni tali da riuscire a raggiungere i loro obiettivi professionali favorendo il benessere della persona: che come ampiamente dimostrato in letteratura è influenzato anche dal benessere lavorativo. Diversamente c’è il rischio altrimenti che l’assunzione di persone con disabilità diventi semplicemente un obbligo di legge a cui bisogna adempiere; un esempio interessante è rappresentato dagli studi di Zappella (2016) nei quali sono stati coinvolti datori di lavoro appartenenti a piccole e medie imprese della provincia di Bergamo, in cui si è evidenziato come il 60% affermi che i lavoratori con disabilità non ricoprono ruoli utili all’interno dell’azienda.

È importante considerare anche i livelli di inclusione sociale, innanzitutto è necessario sottolineare le significative differenze generazionali per cui i più giovani presentano tassi di partecipazione e di soddisfazione più elevati. Nonostante queste positive considerazioni è importante prendere in esame che in termini di network solo il 43,5% delle persone con limitazioni dichiara di avere relazioni sociali contro il 74,4% del resto della popolazione. Si nota inoltre come la partecipazione alle attività culturali presenti un gap non indifferente, infatti solo il 9,3% delle persone disabili va frequentemente ad assistere a spettacoli teatrali, concerti o mostre a differenza del 30,8% della popolazione totale. Una delle cause di questa scarsa partecipazione è legata – ancora una volta – all’accessibilità degli spazi.

Per quanto vi sia stato un generale miglioramento nella condizione di vita delle persone con disabilità in termini di inclusione, i dati rimangono preoccupanti considerando soprattutto le conseguenze che una segregazione educativa e una discriminazione nel mondo del lavoro possono avere (Shakespeare, 2017, p.190).

Conclusioni

Se analizziamo il mutamento della disabilità attraverso il tempo e le culture, per giungere ad una più chiara comprensione della sua attuale concezione/percezione possiamo ritrovare un fil rouge attraverso i complessi sviluppi storici non sempre lineari, né filantropici, che hanno però prodotto gli incontestabili diritti della nostra Costituzione.

Uno dei punti salienti è stato il cambio di paradigma nell’approccio alla disabilità: ossia il passaggio dal modello medico a quello sociale. Il modello medico, detto anche individuale, considerava la disabilità solamente in relazione all’individuo che si trovava a viverla. Approcciandosi alla disabilità in questi termini la prima conseguenza evidente è che non si poneva il problema di un’effettiva inclusione sociale delle persone con disabilità, in quanto la loro condizione veniva considerata come una tragedia personale che non dipendeva dalla società circostante. Il modello sociale invece, che ancora oggi è in continua evoluzione, considera i limiti che possono essere causati da una disabilità anche in relazione alla società e al modo in cui quest’ultima è organizzata: tale cambio di approccio impone la modificazione delle strutture sociali, relazionali ed economiche.

Garantire alle persone con disabilità la possibilità di scegliere la modalità dell’assistenza è fondamentale per affermare il processo di inclusione sociale. Peraltro, per arrivare ad una effettiva inclusione – dal punto di vista legislativo – non si necessita di una particolare innovazione, bensì come afferma il co Presidente dell’associazione Luca Coscioni, Marco Gentili basta «rinforzare ciò che già esiste, in modo che diventi un diritto universale».

BIBLIOGRAFIA

Belli R. (2014) Vivere Eguali. Disabili e compartecipazione al costo delle prestazioni. Milano: Franco Angeli.

Dell’ Isola L. (2016) Dall’integrazione all’inclusione. OPPinformazioni, 121

Impellizzeri S. (2019) La scuola italiana dal 1861 alla «buona scuola» tra leggi e riforme. Lineamenti di legislazione scolastica. Caltanissetta: Alfa & Omega.

Istat (2019) Conoscere il mondo della disabilità: persone, relazioni e istituzioni, Roma.

Istat (2020) Linclusione scolastica degli alunni con disabilità | anno scolastico 2018-2019. Roma.

Morris J. (1993) Independent Lives? Community care and disabled people. London: Macmillan.

Shakespeare T. (2017) Disabilità e società. Diritti, falsi miti, percezioni sociali. Trento: Erickson.
Zappella E. (2016) Il collocamento mirato dei dipendenti con disabilità nel territorio lombardo: l’opinione dei datori di lavoro. Formazione & Insegnamento, XIV, 2.

Sitografia

Commissione Europea: https://ec.europa.eu/social/main.jsp?langId=it&catId=1137 Enciclopedia Treccani: https://www.treccani.it
UCL BLOOMSBURY PROJECT: https://www.ucl.ac.uk/bloomsbury- project/institutions/smallpox_hospital.htm

Nota biografica

*Lorella Cela, Feltre (BL), laureata in Sociologia (indirizzo di Progettazione e innovazione sociale) presso l’Università degli Studi di Trento, attualmente prosegue gli studi in magistrale nel corso di laurea di Gestione delle organizzazioni


[1]All’interno di questi articoli non ci si riferisce direttamente alle persone con disabilità ma in generale al concetto di persona motivo per cui, le conseguenze di tali principi, vanno ad influenzare anche la condizione sociale, politica ed economica delle persone con disabilità.

[2] Cfr. La Costituzione della Repubblica Italiana, art.3, primo comma

[3] Cfr. La Costituzione della Repubblica Italiana, art.3, seconda comma

[4] «Dunque gli uomini non nascono eguali, ma, come dice felicemente la nostra Costituzione, essi hanno pari dignità sociale. È la dignità che scaturisce dall’essere uomo e che, dunque, va riconosciuta a tutti.» (Belli,2014, p. 2)
[5] Cfr. La Costituzione della Repubblica italiana, che all’art. 34, primo comma, afferma che «la scuola è aperta a tutti.»

[6] Cfr. La Costituzione della Repubblica Italiana, art. 38, terzo comma

[7] L. 23 marzo 1999, n. 68, attuata con D.P.R. 10 ottobre 2000, n. 333

[8] Legge 5 febbraio 1992, n. 104, “Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate” (Pubblicata in G. U. 17 febbraio 1992, n. 39).

[9] Legge 5 febbraio 1992, n. 104, primo comma in https://archivio.pubblica.istruzione.it/news/2006/allegati/legge104_92.pdf Data di ultima consultazione: 19 ottobre 2020.

[10] Con l’emanazione della direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 entra in uso l’espressione “Bisogni Educativi Speciali”. Nella direttiva si parla di «strumenti di intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica», (Dall’Isola, 2016, p. 44).

[11] [dal lat. integratio -onis, con influenza, nel sign. 3, dell’ingl. integration]. 3. Inserzione, incorporazione, assimilazione di un individuo, di una categoria, di un gruppo etnico in un ambiente sociale, in un’organizzazione, in una comunità etnica, in una società costituita. Vocabolario Treccani, https://www.treccani.it/vocabolario/integrazione/ Data di ultima consultazione: 19 ottobre 2020

[12] [dal lat. inclusio -onis]. – 1. a. L’atto, il fatto di includere, cioè di inserire, di com- prendere in una serie, in un tutto. In Vocabolario Treccani, https://www.treccani.it/vocabolario/inclusione Data di ultima consultazione: 19 ottobre 2020

[13] Cfr. La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, art. 24, primo comma

[14] Cfr. La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, art. 2 – Definizioni

[15] Cfr. La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, art. 19 – Vita indipendente ed inclusione nella società