Dal bisogno di appartenenza alla costruzione della rappresentazione dell’altro. La banalità dello stereotipo e del pregiudizio

Laura Isgrò

Abstract

Una delle sfide attuali dei docenti e degli educatori consiste nello sperimentare molteplici e dinamiche  strategie per stimolare nei bambini e nei ragazzi forme di decentramento culturale, non già per privarli del legittimo bisogno di appartenenza al gruppo di riferimento, ma per orientarli in senso pedagogico alla decostruzione degli stereotipi di cui sono inizialmente nutriti dal nucleo familiare. Quest’azione “d’urto” esige che la relazione educativa prenda avvio per iniziativa dell’educatore  con  una totale disponibilità a uscire dal senso comune e dai pregiudizi, accogliendo e abbracciando l’educando incondizionatamente, instaurando una dimensione empatica e non giudicante. Il maestro autentico, che fonda la relazione sulla fiducia, costituisce il modello positivo da cui apprendere a “utilizzare” gli strumenti basilari per la conoscenza e il rispetto dell’alterità. Con questo presupposto è possibile immaginare una comunità inclusiva, cominciando sin dalla tenera età.

Abstract

One of the current challenges of teachers and educators consists in experimenting with multiple and dynamic strategies to stimulate forms of cultural decentralization in children and young people, not to deprive them of the legitimate need to belong to the reference group, but to orient them in a pedagogical sense towards deconstruction. of the stereotypes they are initially nurtured by the family unit. This “shock” action requires that the educational relationship start on the initiative of the educator with a total willingness to get out of common sense and prejudices, welcoming and embracing the educator unconditionally, establishing an empathic and non-judgmental dimension. The authentic teacher, who bases the relationship on trust, constitutes the positive model from which to learn to “use” the basic tools for knowledge and respect for otherness. With this assumption it is possible to imagine an inclusive community, starting from an early age.

Parole chiave

Bisogno di appartenenza Processi interpretativi Stereotipo Pregiudizio Decentramento Accoglimento

Keywords

Need to belong  Interpretative processes  Stereotype  Prejudice  Decentralization  Acceptance


Il bisogno di appartenenza viene descritto come un bisogno basilare di natura psicologica che interessa l’essere umano e dunque si riscontra in tutte le culture (Maslow, 2010). Un individuo, sin dalla nascita, avverte la necessità di trovare una risposta affettivo-relazionale da parte di persone significative che lo gratifichi dal punto di vista emozionale e lo faccia sentire al sicuro e accolto. Tale condizione di soddisfacimento, consente di sviluppare autostima, benessere psichico, sentimenti positivi verso gli altri e, in particolare, verso il gruppo di appartenenza. Appartenere assume un significato valoriale che ha influssi vantaggiosi ad ampio spettro solo se i membri riescono ad affermare la propria soggettività contribuendo attivamente e in vario modo agli equilibri del gruppo. Esiste una linea di congiunzione fra il bisogno di appartenenza e l’identità sociale: quest’ultima si forma gradualmente e di pari passo allo sviluppo cognitivo, relazionale e morale della persona cercando conferme continue nei diversi contesti in cui nascono i gruppi. L’identità sociale costituisce la prima definizione dell’io nel mondo e pertanto l’educazione familiare e poi quella scolastica, sono il ponte di collegamento, la facilitazione, per l’inserimento nei molti ambienti di cui è composta la società. Identificarsi in una comunità presuppone accettarne le usanze, la lingua, le leggi e cercare di ottenere un posto rappresentativo nel suo interno. Lo stereotipo, essendo un processo cognitivo culturalmente connotato, fa parte delle strutture identitarie della comunità perché consolida i rapporti fra i suoi membri, contribuendo alla definizione della fisionomia della propria immagine. A tal proposito afferma Nobile  “inoltre, sminuendo, parlando, denigrando si possono superare sentimenti di inferiorità e di inadeguatezza, trasformandoli in atteggiamenti di superiorità interiorizzando un’immagine positiva di sé e del proprio in-group in termini di eccellenza morale, civile e culturale” (Nobile, 2014, 39).

Per la persona in formazione, lo stereotipo è un’elaborazione concettuale grossolana trasmessa attraverso l’educazione familiare. Può accadere, infatti, che il nucleo familiare crei dei propri stereotipi a cui si aggiungono quelli veicolati dall’ambiente esterno. In questo caso si formerebbero due categorie di stereotipo e, conseguentemente, di pregiudizio: una propria del nucleo familiare (si pensi alle famiglie in cui permane ancora l’idea che l’accudimento della casa spetti in modo esclusivo alla donna e, nonostante ella lavori anche duramente, non riceve alcun aiuto dai familiari più stretti) e una condivisa con la società di appartenenza (un esempio è la facilità con cui è possibile riscontare espressioni, spesso sentite stando in sosta ai semafori, del tipo “quegli zingari chiedono soldi e poi hanno le mercedes e l’acqua gratis da parte del comune a cui paghiamo le tasse”).

Già in età precoce, il bambino comincia a sviluppare il senso di appartenenza etnica che lo porterà a elaborare stereotipi e pregiudizi.

Abound, in un suo noto studio (Abound, 1988), analizzando le fasi dello sviluppo infantile già descritte da Piaget (Piaget, 1947), indica che il senso di appartenenza etnica è connesso allo sviluppo cognitivo, all’efficacia e alla maturazione dei meccanismi mentali di conoscenza e di classificazione che portano alla formazione degli stereotipi e dei pregiudizi. Lo studioso, individua tre fasi evolutive l’una preordinata all’altra e dai contorni flessibili: la prima, da uno ai cinque anni di vita, contrassegnata dall’egocentrismo, ha come effetto la produzione di categorie basate unicamente sulla percezione dell’aspetto visivo che identifica il genere e i tratti somatici distintivi dell’etnia di origine. All’età di quattro anni il bambino facente parte di un gruppo di maggioranza, mostrerebbe una netta preferenza nei confronti di coloro che hanno tratti simili ai suoi, tracciando una linea ideale di demarcazione che separa l’altro diverso da sé. Dai cinque anni si manifesterebbe il “principio di conservazione”, che consiste nell’inserire le persone all’interno di categorie sociali strutturate, senza tenere conto delle loro peculiarità, cogliendone, infatti, solamente i tratti di somiglianza reputati invariabili. In questa tappa il bambino colloca se stesso in una categoria e cerca di identificarsi nel proprio gruppo, di cui rileva intuitivamente le leggi, scoprendo il senso di appartenenza sociale come un fatto positivo e rassicurante; pertanto, può produrre rappresentazioni  meno prestigiose dei gruppi diversi dal proprio.

Nella seconda fase, dai cinque ai sette anni, il bambino comincia a gestire gli stimoli esterni in modo più duttile, alleggerendo il carico degli stereotipi e sfumando i limiti posti fra le categorie. In questo modo diviene via via sempre più disponibile alla diversità, non più totalmente intrisa di pregiudizi. Accostarsi all’altro ne permette il riconoscimento attraverso l’individuazione di aspetti in comune, anche nel caso di educazioni e culture molto distanti fra loro; in questo modo il punto di vista etnocentrico può essere progressivamente abbandonato.

La terza fase, che si manifesta a partire dagli otto anni, risulterebbe fondamentale per la fossilizzazione dello stereotipo e del pregiudizio o, al contrario, per lo sviluppo della disposizione all’accoglienza e alla relazione con la diversità.

Fra gli studi pubblicati in merito ai rapporti fra pari di culture diverse in età evolutiva, quello di Di Pentima (Di Pentima, 2006) risulta particolarmente stimolante in quanto ha rivelato l’esistenza di una correlazione fra la predilezione nei confronti dei membri del proprio gruppo e la “teoria dell’attaccamento”. La studiosa ha effettuato un’indagine intervistando un campione di bambini italiani circa il senso di amicizia che possono nutrire verso i connazionali e verso i pari di altre culture o nazionalità. I bambini con un buon attaccamento hanno mostrato flessibilità nel ritenere “amici” i coetanei a prescindere dalla loro provenienza. I bambini con un attaccamento disorganizzato, invece, hanno palesato di gradire di meno i pari immigrati. Lo stile di attaccamento pare produrre, quindi, sin dall’infanzia conseguenze relativamente alla scelta degli amici e al modo di tessere relazioni sociali. La conclusione di questo studio porta a supporre che i bambini cresciuti con un  attaccamento organizzato siano propensi ad avere fiducia negli altri, fatto che incentiva la ricerca  di nuovi rapporti e l’accoglimento. I bambini con un attaccamento non ben strutturato hanno scarsa autostima, si percepiscono fragili, rappresentano lo sconosciuto come pericolo, condizione che genera insicurezza, chiusura, respingimento di fronte al contatto interetnico.

La pedagogia interculturale interviene stimolando nei docenti la riflessione su quale punto di vista venga assunto da adulti e da bambini nel momento in cui essi collocano l’altro all’interno di categorie, e quali effetti ne derivano durante la costruzione delle relazioni. L’insegnante deve impegnarsi nel conquistare competenze idonee a rilevare le interpretazioni degli alunni, riconoscere le proprie e mettere in atto le strategie più opportune, a seconda delle situazioni, per gestire gli stereotipi e i pregiudizi emergenti. Secondo Bolognesi, infatti,

“il punto non è quello di optare verso pratiche incontaminate dai processi interpretativi.[…] Al di là dello stereotipo o del pregiudizio, ogni asserzione, descrizione o azione circa un individuo è sempre prodotta da un punto di vista. E un punto di vista è una prospettiva orientata culturalmente e soggettivamente. La questione, allora, è assumere questo punto di vista da parte dell’educatore: ciò significa acquisire la consapevolezza di essere implicato come soggetto nella relazione educativa e in quanto tale continuamente interprete attivo della situazione.[…] La consapevolezza di questo processo comporta in primo luogo che le immagini che percepiamo non sono un ritratto oggettivo dell’altro, ma una sua costruzione soggettiva e significa che quelle immagini, essendo costrutti interpretativi, sono variabili e provvisorie. In secondo luogo implica avere la consapevolezza di poter costruire immagini diverse dell’altro in funzione della situazione e di poter conoscere quali possono essere le ricadute educative di queste possibili immagini dell’altro” (Bolognesi, 2015, 93-97).

 “La lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male”, concetto espresso nella frase di chiusura del penultimo capitolo del grande libro di Hannah Arendt (Arendt, 1963, 259), ci porta a riflettere sul fatto che la “banalità” non è insita nel male in sé, ma sulla frequenza con cui esso viene attuato da persone comuni. Tale ragionamento è estendibile allo stereotipo e al pregiudizio nella misura in cui i loro effetti, causati da atteggiamenti verbali e non verbali più o meno manifesti di individui con cui si è in contatto quotidianamente, causano danni permanenti nella sfera psichica e relazionale di chi li subisce. Le vittime dei pregiudizi, in qualunque fase della loro esistenza si trovino, tendono a chiudersi in se stessi, a non partecipare alla vita sociale, a fare i conti con ripetuti insuccessi e, infine, a sviluppare sentimenti di ripulsa contro i gruppi di maggioranza. L’approccio interculturale, ancora una volta, consente di venire in soccorso quando si verificano certe situazioni problematiche, indagando, caso per caso, le scaturigini delle condotte pregiudizievoli e intervenendo immediatamente per tutelare la particolare fragilità della persona in formazione e orientare al dialogo e ai punti di contatto. Infatti, in ambito scolastico, sono state riscontrate criticità nell’apprendimento degli strumenti di base, come la lettura e la scrittura, da parte di alunni appartenenti a culture non autoctone a causa dell’ambiente poco ospitale in cui erano stati inseriti (e non inclusi) (Zanfrini, 2004).

Un’interessante ricerca condotta da Zannoni e Di Rienzo (Zannoni e Di Rienzo, 2006) ha raccolto, durante l’anno scolastico 2003/2004, le conoscenze e le opinioni dei bambini di quarta e quinta primaria di alcune scuole di Reggio Emilia riguardo ai compagni provenienti da Paesi diversi dal loro. Il fine è stato quello di cogliere le riflessioni spontanee di questi alunni immersi in un contesto multietnico per rilevare quali fossero, se presenti, gli stereotipi legati alle culture con cui erano entrati in contatto. Nonostante siano passati sedici anni da quando è stato pubblicato questo studio, i contenuti costituiscono, ancora adesso, un valido spunto di riflessione per docenti, ricercatori e genitori sulla loro possibile attualità. Ai bambini è stato chiesto di raccontare le loro cognizioni  in merito agli aspetti fisici, linguistici, religiosi e culturali su Cina e cinesi, Africa e africani, zingari. Le narrazioni dei bambini italiani hanno mostrato l’esistenza di numerosi stereotipi ormai consolidati e datati, sicuramente frutto dell’influenza operata da genitori e da altre figure significative a loro vicine, e , senz’altro, da programmi televisivi, cartoni animati, documentari naturalistici e antropologici e telegiornali. La dimensione dell’aspetto esteriore è risultata particolarmente stigmatizzata: i Cinesi sono innanzi tutto molto spesso assimilati, per tratti somatici e dimensioni fisiche, ai Giapponesi: bassa statura, capelli neri e lisci, volto appiattito, occhi allungati a forma di mandorla, pigmentazione giallastra della pelle dovuta, secondo la maggioranza delle opinioni, a mancanza di melanina o ad alimentazione sbilanciata e carente di nutrienti essenziali. Il modo di vestire, ritenuto assai diverso da quello degli italiani, sarebbe caratterizzato da un’accentuata presenza di decorazioni floreali e dall’uso del tradizionale kimono. Tendenzialmente questo popolo non presenterebbe tratti distintivi e tutti i Cinesi avrebbero un aspetto molto simile. L’aspetto linguistico è stato associato alla pronuncia di suoni misteriosi e  alla scrittura ricca di segni somiglianti a disegni, un po’ come era in uso presso gli antichi Egizi. La religione è stata descritta come una confessione intrisa di magia e di rituali che verrebbero esibiti con l’uso di un drago in cartapesta sorretto da persone. Le opinioni riferite all’ambito economico sono risultate abbastanza contraddittorie. Da un lato gli alunni hanno affermato di sapere che la maggior parte degli oggetti di cui ci serviamo quotidianamente sono fabbricati in Cina (e questo dovrebbe denotare la presenza di progresso industriale e di ricchezza), dall’altro hanno definito i Cinesi come abitanti di villaggi rurali e retrogradi, spesso impiegati nelle risaie. La cultura Cinese quindi sarebbe una sintesi di progresso e di arretratezza, una considerazione piuttosto discordante che svela il peso degli stereotipi trasmessi dall’ambiente. Troppo di frequente si costruiscono immagini falsate di popoli, di gruppi o di persone di cui si conosce poco o nulla. Nella stessa ricerca è  stato coinvolto un gruppo costituito da bambini cinesi che, rispondendo ai medesimi quesiti rivolti ai pari italiani, ha mostrato di possedere un numero di stereotipi molto inferiore rispetto al gruppo di maggioranza, perfettamente in linea con i risultati già sperimentati negli studi classici citati in precedenza (Allport, 1973). Gli alunni si sono dichiarati affascinati dai monumenti presenti in Italia anche se hanno messo in evidenza che la Cina possiede immense ricchezze naturali e artistiche di cui sentono nostalgia (il campione intervistato era formato da alunni nati in Cina e arrivati in Italia da poco tempo). Relativamente ai tratti fisici, questi alunni hanno subito rilevato differenze legate alla variabilità del colore degli occhi e la forma del viso. Le differenze più marcate sono state individuate nelle abitudini alimentari e nella didattica. Quest’ultima considerazione si riferisce al fatto che le scuole in Cina sono molto più severe di quelle italiane e vengono lasciati parecchi compiti per casa. Più che stereotipi appaiono constatazioni non lontane dalla realtà.

Ritornando alle interviste rivolte agli alunni italiani che riguardavano Africa e Africani, è emersa decisamente l’associazione con il colore nero della pelle, tratto considerato uniformante di tutti gli abitanti del Continente, nonostante le svariate etnie disseminate nella sua enorme configurazione geografica presentino colori e lineamenti parecchio diversi fra loro. Inoltre gli africani maschi sarebbero indistintamente, sebbene denutriti,  muscolosi e rapidi in quanto allenati a correre dietro agli animali da cacciare. Infatti lo stereotipo dominante è che in Africa si pratichi la caccia e la raccolta come facevano gli uomini del Paleolitico. Le donne invece sarebbero caratteristicamente grasse e con i capelli acconciati in minuscole trecce.  La povertà imperante e il forte caldo comporterebbe l’uso di vestiti succinti e spesso logori. L’aspetto linguistico è stato etichettato come simile a quello delle scimmie, dovuto all’arretratezza culturale di questo popolo (uno per tutti). Non è emersa nessuna considerazione sulla grande varietà linguistica che ogni comunità possiede come repertorio comunicativo, lo stereotipo, dunque, si è fossilizzato sulla svalutazione culturale dei popoli d’Africa. Dai racconti degli alunni emerge una forte insistenza nel ritenere gli Africani poveri e incapaci di sfruttare le risorse del sottosuolo. Dal punto di vista religioso, viene ritenuto che l’unica religione praticata sia quella islamica e che questa sia la causa di molteplici ingiustizie sociali soprattutto verso la donna, costretta all’obbedienza e a subire la poligamia del marito. La flora e la fauna rispecchiano gli stereotipi trasmessi dai film d’avventura e dai documentari naturalistici: leoni e altri felini feroci popolerebbero in lungo e in largo il territorio, mentre le foreste favorirebbero la sussistenza  attraverso la caccia e la raccolta.

Un gruppo di domande è stato riservato alle considerazioni in ambito migratorio. I bambini hanno fatto emergere tipi diversi di stereotipi  in relazione alla modalità d’ingresso e ai Paesi di origine degli immigrati. Distinguono i clandestini pervenuti in Italia da nazioni povere con barconi fatiscenti dagli immigrati giunti in condizioni economiche migliori e in modo regolare.  Considerano i Cinesi gran lavoratori e non li stigmatizzano come clandestini. Il mestiere di venditore ambulante, di parcheggiatore abusivo  e di lavavetri viene associato agli Africani ( di per sé ritenuti immigrati clandestini) i quali, inoltre, si presterebbero a lavori sottopagati e faticosi per la loro conformazione fisica ritenuta molto resistente e il loro basso o assente livello di istruzione.

 Ciò che pensano i bambini di questa età riguardo agli Zingari (anche in questo caso omologati in un’unica etnia) è esemplificativo del preconcetto che induce a classificarli come ladri e infidi, genericamente provenienti da tutte le parti del mondo e quindi senza una vera e propria identità. Oltre all’aspetto fisico, connotato per il colore ambrato della pelle e i capelli scuri, il modo di vestire risulterebbe dalla mescolanza di abiti raccolti fra quelli usati e quindi per nulla curati. Ma l’aspetto che li contraddistinguerebbe maggiormente sarebbe la pratica del nomadismo che li indurrebbe a costruire un linguaggio misto di tanti idiomi diversi e a sviluppare una personalità imprevedibile e mal adattata alle comunità in cui si insediano. Gli zingari non farebbero nessun lavoro ordinario ma si procaccerebbero da vivere solo con il furto e l’accattonaggio. L’aspetto religioso, poi, sarebbe pervaso da un’aura di mistero: non viene delineata una pratica spirituale connessa alla preghiera e al raccoglimento, ma vengono immaginate esibizioni rumorose simili a rituali pagani non meglio identificati.  Da quanto è emerso dalle narrazioni, quindi, la rappresentazione dell’alterità difficilmente si discosterebbe da immagini preconfezionate e tramandate. Le culture sono in continua evoluzione e la mancanza della conoscenza degli aspetti più salienti dei gruppi culturali porta a una loro omologazione massiva priva di sfumature, ma ricca di supposizioni infondate e clamorosi errori di informazione. Dall’anno in cui è stata svolta la ricerca è passato del tempo, la prospettiva inclusiva e interculturale dell’educazione, così fortemente voluta dal sistema istruzione, dovrebbe aver contribuito a rendere flessibile, negli alunni di oggi, la visione nei confronti di chi ha un diverso modo di stare al mondo. Dovrebbe essere forte, oggi, la motivazione all’apertura, alla conoscenza  libera da forzature stereotipate e da pregiudizi che evidenziano, se non altro, la banalità con cui si qualifica l’etnocentrismo.

Un’ulteriore ricerca (Cardellini, 2015) condotta nell’anno scolastico 2013/2014 in alcune scuole primarie di Bologna frequentate da bambini di varie culture, ha messo nuovamente in luce l’importanza di studiare il pensiero dei bambini riguardo le tematiche care all’approccio interculturale: il riconoscimento dell’altro attuato attraverso l’immagine concepita come riflesso della propria. Agli alunni sono state proposte due domande aperte che li invitavano a ipotizzare di trovarsi improvvisamente con la pelle di un colore diverso dal proprio e di pensare quale tipo di colore sarebbe piaciuto avere. Lo scopo dei quesiti era di cogliere, indipendentemente dal colore della carnagione originaria dei bambini, il loro modo di immaginarsi diversi, quali azioni avrebbero svolto durante la giornata consapevoli del cambiamento avvenuto esteriormente. Da quanto è emerso dai dati, gli alunni con pelle chiara descrivevano la possibilità di considerare per loro epidermide più sfumature di colori dal bianco al rosa, al marrone, senza soffermarsi rigidamente nelle due categorie bianco-nero; gli alunni con la pelle scura invece mantenevano una scissione ben definita fra i due colori, probabilmente perché ne avvertivano più insistentemente la connotazione nell’ambiente familiare ed extra familiare. Un altro dato significativo affiorato dalle risposte della maggior parte dei bambini di carnagione bianca, era di non preferire il colore nero per la loro pelle; la motivazione che era seguita a questa affermazione risiedeva nel provare vergogna o nel non  piacersi o nel sembrare sporchi. Di contro, i bambini con la pelle scura, dichiaravano con maggiore frequenza di preferire la pelle bianca.  Il contenuto delle risposte  evidenzia come i pregiudizi dei bambini dalla pelle chiara sul colore della pelle scura  siano legati a uno status sociale non desiderabile, perché probabilmente ricondotto a una condizione di svantaggio economico e di una effettiva esclusione dalla comunità. Un aspetto interessante che viene riportato dalla ricercatrice è riferito alle docenti con cui si era relazionata durante le fasi della sperimentazione. Un buon numero di esse si era mostrato riluttante nel presentare ai propri alunni quesiti così espliciti sull’argomento “colore della pelle”, in quanto li ritenevano ancora non pronti per affrontare tematiche complesse come la diversità, il pregiudizio, l’accoglienza. Altre docenti invece avevano negato l’esistenza di particolari attenzioni da parte dei propri alunni sul colore della pelle, anche se la classe era composta da un ambiente multietnico, quindi non ritenevano opportuno entrare nell’argomento per mettere in evidenza ciò che per loro, fino a quel momento, non aveva destato nessuna criticità. Da queste ultime riflessioni possiamo trarre che l’azione pedagogica deve interessare in prima istanza la formazione e la sensibilità dei docenti che hanno il compito di non tralasciare mai di affrontare tematiche  che possono sembrare scomode e che necessitano di competenza e di aggiornamento continuo.

 I bambini, come abbiamo visto, hanno la percezione delle differenze somatiche e culturali, perciò, anche se in classe non nasce spontaneamente una discussione su questi argomenti, è bene che l’insegnante sproni i propri alunni a esprimersi, senza tabù e con doveroso rispetto,  su ciò che pensano di sé stessi e in rapporto agli altri per favorire i rapporti amicali.

Bibliografia

Abound, F. E. (1988). Children and Prejudice. Oxford: Basil Blackwell.

Allport, G.W. (1954). The Nature of prejudice. Cambridge: Addison-Wesley (trad.it.  La natura del pregiudizio, La Nuova Italia, Firenze, 1973).

Arendt, H. (1963). Eichmann in Jerusalem:A Report on the Banality of Evil. New York: Viking Press (trad.it. La banalità del male, Feltrinelli, Milano, 2017).

Bolognesi, I.(2015). Costruire le differenze. Immagini di straniero nei contesti educativi. In Nigris (Ed.), Pedagogia e didattica interculturale. Milano-Torino: Pearson Italia.

Cardellini, M. (2015, maggio). Colori della pelle: cosa pensano bambine e bambini? Uno studio su stereotipi e pregiudizi nelle scuole primarie della città di Bologna. “Riviste digitali Erickson, vol.13, 2. Estratto nel mese di settembre 2021, da https://rivistedigitali.erickson.it/educazione-interculturale/archivio/vol-13-n-2/colori-della-pelle-cosa-pensano-bambine-e-bambini-uno-studio-su-stereotipi-e-pregiudizi-nelle-scuole-primarie-della-citta-di-bologna/

Di Pentima, L. (2006). Culture a confronto. Relazioni, stereotipi e pregiudizi nei bambini. Milano: Unicopli.

Maslow, A. (2010). Motivazione e personalità. Roma: Armando Editore.

Nobile, A. (2014). Il pregiudizio. Brescia: Editrice La scuola.

Piaget, J. (1947). La representation du monde chez l’enfant. Paris: Presses Universitaires de France (trad.it. La rappresentazione del mondo nel fanciullo, Bollati Boringhieri, Torino, 2013).

Zanfrini, L. (2004). Sociologia della convivenza interetnica. Roma-Bari: Laterza.

Zannoni, F., Di Rienzo, A. (2006). Con gli occhi dei bambini: come affrontare stereotipi e pregiudizi a scuola. Roma: Carocci Faber.