HOMO-LOGGATUS. LO STATO ANTROPOLOGICO DELLO STORICO IN AMBIENTE DIGITALE.

Di Salvatore Spina (*)

Abstract

L’informatizzazione ha creato una nicchia ecologica digitale dove l’uomo vive in uno status di interconnessione che modifica la sua epigenetica. Dentro questo spazio virtuale, iper-datificato, il soggetto loggato potenzia le sue capacità intellettive e razionali, dando vita ad una nuova entità cognitiva. L’uomo evolve verso un nuovo status antropologico che sposta i termini del dibattito della Digital History, dalla Storia allo storico, obbligando quest’ultimo ad una riflessione che, partendo dalle posizioni fichtiane e schellinghiane sulla relazione mente-corpo-mondo (nicchia ecologica), perviene alla possibilità del superamento della crisi della Storia —imposta dal presentismo—, e alla necessità di una rimodulazione della metodologia della ricerca che possa fondarsi sulla nuova visione dell’interconnessione tra mente e nicchia digitale come strumento d’indagine.

Keyword

Entità cognitiva digitale, Epigenetica, Nicchia ecologica digitale, Biotecnocenosi, Uomo loggato.

1. Considerazioni attraverso il tempo: l’uomo, le macchine, l’Epigenetica.

La Rivoluzione Industriale inizia con la riflessione sul patto sinallagmatico uomo-ambiente, che è a fondamento delle Scienze, intese come sistemi che hanno segnato le flessioni —se dovessimo tratteggiare un’ipotetica curva di Gauss— del tempo tecnologico dell’essere umano, e del pensiero scientifico in potenziamento. Le macchine, frutto costante di tale ragionamento, sono sempre più aggiornate, e il loro consolidamento modifica, incessantemente, il nostro sistema sociale, il sistema economico (grazie all’innovazione nel sistema di produzione), quello di scambio, i mercati, ma anche —e soprattutto— lo stile di vita di ogni individuo entrato in contatto con esse.

Ogni invenzione è frutto di un percorso teoretico, scientifico, intellettuale, che origina nel genio dell’uomo in quanto essere pensante, il quale crea strumenti sempre più innovativi per agevolare il proprio lavoro e quello degli altri. Il percorso economico, successivamente, è riflesso di tale potenziamento tecnologico, così come lo è quello politico (e laico e cristiano), che dalla ostinazione alla censura, passa all’opportunità offerte dai prodotti ingegneristici —che si fanno gradino essenziale su cui costruire le politiche nazionali di sviluppo industriale ed innovazione.

Ogni prestazione tecnologica è finalizzata a temperare una fatica fisica, a sollevare il corpo —depotenziandolo nel tempo— da funzioni e lavori che possono essere svolti, meglio, da una macchina. Tale asserzione è un principio cardine della ricerca tecno-scientifica, la quale ha dato adito ad afflati su cui sono state incentrate “tragicità” filosofiche che hanno dato vita a scontri sociali che hanno servito ben poco, nei termini del pericolo dell’edificazione di un mondo votato alla relazione ‘uomo-macchina’. Concetti marxisti come alienazione e perdita del senso del proprio essere sono stati fondamentali per tracciare la mediana di riferimento di una nuova classe di lavoratori, che si affacciava alla Storia; ma che —alla fine delle analisi— non è riuscita a fare i conti con quel che disprezzava, facendosene, successivamente, ferrea detentrice.

Il secolo delle macchine, da presso, diventa specchio —per sé e per lo storico— del percorso millenario dell’ingegno e della sperimentazione, traducendosi in una presa di posizione —fondata sul coraggio filosofico galileiano (Villari 1868)— che ha destabilizzato gli impianti sistemici. La Filosofia della Natura si libera dell’Umanesimo e inizia un suo percorso, scevro da ogni presenza ideologica, accettando solamente la sfida di una economia che guarda, da quel momento —ed ancora tuttora!—, alla tecnologia come fulcro di un sistema industriale il cui interesse è attuare una struttura sociale e comunitaria che deve offrire, allo stesso tempo, manodopera e mercato di vendita di quello che gli operai —poi fruitori— producono.

E sebbene le Scienze Naturali si arrestino là dove «non è più possibile riscontrare o provare» (Giarrizzo 2018), il lavoro teoretico e la sperimentazione resta comunque inesauribile; sempre seguito dalla messa in pratica, necessariamente, in una macchina.

In questo frangente, dove la cesura è repentina, la Storia si àncora alle «inevitabili mutazioni» (Villari 1866), che restano il suo oggetto più importante, mentre molte branche dell’Umanistica seguono le influenze delle teorie darwiniane (Gutiérrez e Ayala 2004; Darwin 2016) e degli approcci positivistici, con una ulteriore spinta dovuta alle scoperte mendeliane sulla eredità dei caratteri —poi sviluppata per le evidenze fisiognomiche e comportamentali— fenotipici degli esseri viventi.

L’uomo comunica geneticamente col suo territorio, con i luoghi da cui trae sostentamento e a cui restituisce l’avanzo. Questo patto sinallagmatico implica una rimodulazione dei caratteri fenotipici degli esseri viventi, su cui l’Epigenetica ha fondato il suo statuto: ogni azione ha una reazione, che diventa istruzione comportamentale e fisiognomica.

Nel corso dei millenni, il consolidamento tecnologico ha modificato il nostro corpo, depotenziando, ad esempio, la struttura muscolare e quella dentale —deputate alla relazione fisico-meccanica con lo spazio che lo circonda—, ma, da un altro lato, essa è testimonianza del potenziamento del sistema cerebrale, pervenuto ad uno stadio strutturale, che è a fondamento delle capacità intellettive e razionali che ci identificano come la specie in grado di scandagliare l’esistenza e le sue regole. La Scienza è manifestazione del nostro sempre più analitico meccanismo di decriptazione delle leggi della Fisica, nel tentativo di impadronirci delle possibilità di cambiare quello che ci circonda.

Su un altro piano, poi, l’Uomo ha cercato di individuare il “proprio” codice, in un percorso che, passando certamente da Democrito, ha definitivamente trovato la sua massima spiegazione in Gregor Mendel (Bateson 2013); e poi, ancora, con la scoperta del DNA (Watson e Crick 1953). Da quel momento, gli scienziati hanno avuto la possibilità di dimostrare che ogni singola azione umana si dischiude in un percorso genomico-genealogico che include il territorio, l’ambiente, la comunità e gli antenati.

Siamo il frutto del pensiero che ha costruito gli strumenti che hanno misurato il mondo. Siamo il frutto dei risultati ottenuti, che hanno trasformato i sistemi produttivi —manuali e, successivamente, industriali— e l’Economia.

Sin dalle origini della civiltà, l’uomo ha dovuto sviluppare tecnologie e teorie finalizzate alla “conta”. Discipline come l’Economia, la Demografia, l’Antropologia e la Sociologia sottostanno a tali invenzioni e diventano espressione di quel tentativo degli illuministi e degli umanisti di matematicizzare l’azione dell’uomo —unico ‘oggetto’ che sfuggiva alle Scienze Naturali. E così, come dal lavoro dei biologi originò la Genetica, sorse un nuovo sottocampo della Matematica chiamato Statistica, la cui finalità era la spiegazione della complessità umana. Ma tale indagine ha richiesto un ‘adeguamento’ della strumentazione che fino ad allora furono a disposizione di ufficiali di Stato, amministratori e burocrati: le Scienze erano chiamate alle prime prove di un percorso di “computazione automatizzata”, su cui Pascal e Leibniz ebbero un ruolo determinante. È questo il momento in cui gli strumenti spinsero matematici, filosofi e scienziati a guardare alla società come nuovo oggetto di ricerca; Malthus impegna la sua ricerca guardando alle popolazioni, Ricardo ai principi che governavano la distribuzione del reddito, Morgan ai sistemi di parentela, e LePlay all’organizzazione delle famiglie. Ogni cosa è codificabile e assimilabile alle astrazioni di second’ordine; tutto è potenzialmente numero.

2. Lo sviluppo digitale e la biotecnocenosi.

La digitalizzazione, se è vero che si pone quale frutto di una convergenza di diverse discipline, è ancor più vero che, in un percorso di continua rimodulazione epigenetica, il suo venir in essere ha modificato profondamente la nicchia ecologica che ospita da sempre l’uomo, partendo proprio dalla sua capacità di creare sistemi di comunicazione.

L’uomo codifica per comunicare. Codifica in grafemi per comunicare con chi vive la sua stessa comunità; codifica con gli stessi grafemi, ma in combinazioni diverse, per comunicare con i suoi simili, ma che usano linguaggi differenti dalla sua lingua madre; codifica in binario per trovare formulazioni discrete da sottoporre ai calcolatori, allo scopo di avviare procedimenti di calcolo che gli consentano di ricavare informazioni e pattern da dati.

Oggi, l’iper-informatizzazione e l’iper-codificazione hanno portato l’uomo a sviluppare e utilizzare un sistema linguistico che, se da un lato ha reso necessaria una formazione specialistica per “dialogare con la macchina”, da un altro lato ha consentito di fare dell’Informatica il ponte sintattico e lessicologico tra i vari settori della Conoscenza, “fisico-naturale” e umanistica —sostituendosi alla Matematica, la quale, dopo aver superato i limiti interpretativi imposti dalla religione, si era posta come il linguaggio delle Scienze naturali. L’Informatica, oggi, assurta a tale ruolo, consente l’inter-comunicabilità tra i settori scientifici disciplinari, garantendo alle discipline umanistiche di potersi dotare di un “laboratorio epistemologico” dove parole ed espressioni —grazie al data mining, all’apprendimento automatico e ad altri strumenti— possono essere analizzate come numeri e funzioni matematiche, allo scopo di strutturare, nel caso, ad esempio, del settore storico, in maniera sempre più oggettiva la narrazione sul Passato (Spina 2022).

«Digitalizzazione», «Computer Science», «Digitisation», «Intelligenze Artificiali», «Algoritmi», sono solo alcuni dei termini che hanno scandito gli ultimi decenni, in cui la nostra fisicità ha dimostrato, ancora una volta, di essere causa ed effetto —successivo— dei cambiamenti del mondo.

I sistemi della conoscenza e della nostra intelligenza stanno mutando. Strumenti e tecnologie, prima viste come frutto della fantasia dei demoni (Carducci 1964), sono diventate la struttura su cui si regge l’esistenza di ogni dogma scientifico, mentre, da un altro lato, il discorso epigenetico porta gli umanisti a fare i conti con una progressiva crescita di modelli di pensiero che, necessariamente, linkano l’uomo alla nuova realtà computerizzata. La codifica binaria materializza l’uomo dentro una dimensione digitale che è frutto estremizzato della sua conoscenza, che fa del mondo una espressione della sua crescita nell’esistenza come essere. Tutto è dato e datificazione. L’iperconnessione è interconnessione. Ciò che esiste, si dà nell’essere snodo della rete della comunicazione complessa; estrema, discreta, sintattica, neurale, primaria, in ogni caso stadio attuale del sinallagma uomo-mondo.

Oggi, stiamo attraversando una nuova fase della nostra evoluzione, in cui le nostre facoltà mentali —senza modificare il nostro corpo— si potenziano in un sistema cognitivo esterno alla nostra corporeità —che è già somma di corpo e mente—, ma in simbiosi con essa.

Quando siamo scesi dagli alberi, milioni di anni fa, abbiamo iniziato a registrare nel nostro fenotipo e nel patrimonio genetico funzioni e azioni, così come tutti gli esseri viventi sulla Terra. Un cucciolo di leone prederà allo stesso modo dei suoi simili, a prescindere dalla “dimostrazione” che potrebbe dargli l’esemplare adulto. È la sua struttura genetica, le sue cellule, i suoi cromosomi, i suoi legami e le strutture fisiologiche, il suo bios ad avviare le sue funzioni e spingerlo a cacciare così come fa, da sempre, la sua specie.

Quel bios riguarda anche l’uomo. Ma queste istruzioni iniziali si sono potenziate; nel tempo, si sono aggiunte funzionalità, le quali hanno comportato modifiche cromatiniche (Tsukiyama e Wu 1997; Aalfs e Kingston 2000; Lorch, Maier-Davis, e Kornberg 2010) che hanno consentito ad ogni “esemplare” di adattarsi agli eventi e al trascorrere del tempo. Il bios si è arricchito della semantica; della possibilità di dare un significato al mondo, alle sue parti, e a trovare le cause degli eventi —poco importa se a scagliare il fulmine sia un dio o un “meccanismo fisico”. Ciò che conta è che si dia un significato e si cerchi la causa reale.

La conoscenza è diventata sempre più logica, scientifica e profonda; e tale profondità sarà colta, oggi, dall’Homo-Loggatus in quanto ultimo upgrade dello sviluppo del soggetto cognitivo, che è manifestazione epigenetica della biotecnocenosi, finalità ultima della digitalità, ossia lo status di equilibrio e coesistenza tra uomo e tecnologie.

La digitalizzazione non è la semplice traduzione di un segnale analogico in uno digitale (questo va da sé come semplicistica definizione); essa è la destrutturazione della realtà e la sua migrazione in “ambiente” fondato sulla connessione. L’uomo è “Loggatus” in quanto soggetto che vive ogni sua funzione sociale dentro una struttura a cui accede attraverso un riconoscimento specifico —che traduce la sua identità fisica in un avatar che conserva solamente gli elementi informativi—; l’essere logged-in è lo status necessario affinché si esplichino le sue funzioni. Una condizione che attribuisce un ulteriore scopo al corpo, che coniuga esterno ed interno depotenziandosi. L’inazione resta analogica, mentre la cognizione si erge solamente su mente e mondo. E quest’ultimo, dal suo canto, proprio perché costantemente adattato alle tecnologie frutto dell’ingegno umano (Floridi 2016), è coniugazione di informazioni analogiche e digitali; è costituito da dati che si generano in una dimensione la cui corporeità è strutturata su un codice costituito da elementi non più chimico-fisici (carbonio, DNA, cromosomi), ma su quello ‘binario’, che cerca di emulare la struttura di ogni vivente, per riprodurre —virtualmente— lo stesso ‘soggetto’, ma senza il suo patrimonio fisico-caratterizzante, la cui possibilità di ricostruzione e produzione resta affidata solamente alle sperimentazioni biologiche e bioinformatiche. Ciò che l’uomo ristruttura, invece, in digitale, è qualcosa di ben più complesso: la sua mente.

Per giungere a questo, l’Homo Technologicus (Longo 2001) modifica il mondo, lo adatta alle sue invenzioni, lo configura sulla base delle possibilità delle macchine, e crea tutte quelle chiavi d’accesso (come la rete mobile e gli smartphone) per consentire a sé stesso di connettersi con tutto questo. Tutta la conoscenza (analogica) è convogliata verso questa dimensione, la quale, in chiave epigenetica, ha modificato “il noi” e la percezione che abbiamo della triade corpo-mente-mondo, ristrutturando il nostro patrimonio psicofisico, che non ha più la necessità di analizzare e conoscere solamente in chiave analogica e mediante il close reading, ma attinge con accesso diretto a repository, che controllano con più efficacia tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno.

L’uomo si adatta alla nicchia ecologica, e alle sue azioni corrispondono reazioni, da parte dell’ambiente, che modificano il suo fenotipo, facendo diventare quella interazione un segno che può essere determinante nella grammatica del DNA. Più è radicale, profondo e ripetitivo, più è forte la traccia, che si fa storia fisiologica e intellettiva, ma, soprattutto, nuovo modello categoriale per l’interpretazione dello spazio inter-relazionale (Keverne e Curley 2008; Lester et al. 2011; Roth 2013; Nelson e Monteggia 2011; Crews 2011; Jablonka 2016; Bjorklund 2018; Dias et al. 2015; Jablonka e Lamb 2014; Masterpasqua 2009).

L’èra digitale è la nuova nicchia dove vive l’uomo, un habitat informatizzato in grado di superare il concetto di «virtuale» come spazio non-specifico delle entità, così come era stato posto da Lévy (Lévy 1997), che si configura, in realtà, come luogo determinato sia nel tempo che nello spazio, attraverso coordinate tra server, che generano il luogo —che è ancor più complesso e tecnologicizzato, e garantisce quell’equilibrio finalizzato alla coesistenza tra l’uomo e la macchina, tra l’uomo “esistente” in perenne relazione intellettiva con il dispositivo creato-esistente-ma-senza-essere. Tutta la conoscenza, quindi, emerge da tale cenosi, che dà spazio evolutivo ad una entità cognitiva (l’Homo-Loggatus) che, grazie all’applicazione di tool informatici e Intelligenze Artificiali, analizza in chiave digitale, con più precisione e chiarezza di dettagli, per desumere significati in chiave analogica. Il processo intellettivo è dentro tale cenosi e coinvolge ogni elemento della nicchia, animato e inanimato, meccanico e biologico —non necessariamente nella chiave fichtiana dell’Io razionale come unico ente del rapporto conoscitivo. Ogni invenzione ha modificato lo spazio, ma la digitalizzazione riesce ad andare ancora oltre, in un turbinìo di teorizzazioni che, se da un lato fanno dell’uomo lo snodo di una sistema di scambio informatizzato, da un altro lato sembrano riportare il suo corpo alla sola sua funzione strumentale —fichtiana (Cogliandro 2011)— allo scopo che la ragione impone a sé stessa di raggiungere —principio cardine dello sviluppo delle interfacce brain-computer (Nuyujukian et al. 2018; Simeral et al. 2021; Willett et al. 2021; Henderson et al. 2005), le quali consentono ad un soggetto di agire nel mondo, pur vivendo in uno stato di deficit (totali o parziali) motorio, attraverso l’impianto di chip nella corteccia motoria e l’attivazione del “muscolo della concentrazione” (Morello 2023).

3. Homo-loggatus historicus

La nicchia ecologica digitale —Luciano Floridi la definisce «infosfera» (Floridi 2020)— è uno spazio vitale tecno-biologico che, se da un lato vincola il soggetto cognitivo ad un upgrade, da un altro lato obbliga le metodologie di ricerca tradizionali ad immettersi in un percorso che protende verso la rimodulazione degli statuti disciplinari. Ma se vero che tale invito sia stato per molti aspetti accolto —su tale assunto, gli studiosi delle varie discipline umanistiche parlano, oggi, di Digital Humanities—, è ancor più vero che i fautori del digital turn stanno cercando di imporre le logiche dei singoli settori di ricerca nei processi di digitalizzazione e programmazione, con un approccio che, seppur fondato sull’uso di macchine informatiche, resta sempre analogico, mal recependo il principio fondante della digitalizzazione ossia la codifica in linguaggio machine-readable.

La riflessione necessita, in realtà, di una diversa angolazione; essa impone il superamento del digital divide e la sintesi dialettica del dualismo analogico/digitale, in prospettiva linguistica-informaticizzata: la teoresi sull’infosfera ci riporta alla necessità, come Fogel e Elton indicano già nel 1983, di trasformare «the working [humanist] into a thinking [humanist]» (Fogel e Elton 1983).

Se è vero che l’essere vivente uomo è totalmente pensante, e le parti del suo corpo rispondono alla finalità di acquisire dati —oltre alla semplice meccanica funzionale—, allo scopo di elaborare e, quindi, di compiere operazioni formali, è ancor più vero che la biotecnocenosi sta forgiando —in chiave epigenetica— un homo che produce conoscenza digitale, in ambiente digitale, con strumenti digitali —che relegano il corpo alla sola funzione meccanica—, che gli permettono di organizzare le informazioni in dataset, e che gli consentono ancora di pensare e significare analogicamente, ma con funzioni d’analisi molto più profonde e potenziate.

La digitalizzazione, quindi, non si fonda solamente sulla traduzione da analogico in digitale. Essa è, in realtà, il venire in essere di una nicchia ecologica che supera tale dicotomia spostando la teoresi dalla Scienza verso lo studioso, dall’Umanistica verso l’umanista.

La Digital History coglie tale prospettiva, muovendo il discorso dalla “Storia” allo “Storico”, il quale, nella volontà di sottrarsi a tale prospettiva, oppone al “presente” una sentita e tenace critica —come quella portata da Adriano Prosperi— accusandolo di distruggere la Storia (Prosperi 2021); mentre François Hartog si appella al «presentismo» per descrivere il processo di mesmerizzazione derivante dalla profonda crisi che, iniziata dall’Economia, ha investito l’uomo nelle sue manifestazioni, collocandolo in una dimensione in cui non si riconosce più proprio perché incapace di legarsi alla Storia e alle identità che lo hanno preceduto; un uomo senza origini (Hartog 2015).

Il giudizio è arguto, ma guarda da lontano la necessità, cercando di sviarla della ridefinizione del “mestiere di storico” in una materializzazione digitale. Non il presentismo, quindi, ma il passato incapace di tradursi nella narrazione dell’èra della biotecnocenosi, e l’evenemenzialità distruggono la Storia; e lo fanno attraverso una rimodulazione delle entità cognitive che pretendono una progressione che lo storico non accetta di compiere.

Lo storico, quindi, sente l’imbrigliarsi della rete del tempo al suo presente, accusando lo smarrimento della realtà, che si allontana sempre più dal Passato per legarsi allo stato temporale dell’eterno presente.

Lo storico agisce nel presente, narrando quello che è accaduto, che è la somma di ogni azione, di ogni attimo, di ogni hic et nunc che trasforma l’uomo in agente nel passato incombente, la cui azione, seppur voluta per il presente, è già storica nell’atto.

Il problema è che uno degli effetti dell’iper-informatizzazione è la riduzione (drastica e percepibile) del tempo che intercorre tra l’azione e la sua narrazione come evento storico. Questo effetto produce nello storico l’illusione di un ancorare ogni evento al Presente, che sembra quasi dissolvere il confine tra l’ora e l’allora. Gli atti (intesi come qualcosa di fatto) non necessitano più di un tempo lungo tra il loro venire in essere, il passaggio in “archivio” e il loro emergere come fonte utile alla comprensione di un problema storico. La digitalità ha ridotto gli spazi tra il fatto accaduto e il suo entrare nella Storia, annientando le possibilità analogiche dello storico, il quale, nella critica che apporta alla realtà sempre attuale, esclude l’unico elemento realmente in crisi, ossia sé stesso. La ricerca storica si fonda su tracce che devono riemergere. La digitalizzazione opera un incremento esponenziale sulla sedimentazione, la quale è testimonianza di una accelerazione subìta dagli atti (umani) nell’assurgere a fonte storica. Ogni azione è, nell’atto, già nel passato; e nella nicchia ecologica digitale, il passato è rapidamente remoto, lontano, pur rimanendo in un tempo realmente vicino. Ogni azione viene superata rapidamente, e la serialità è sempre più complessa. La sedimentazione di ieri è già profondamente lontana; ma non è obsoleta. Essa resta, pur essendo già nella sua fase storica, sempre ‘presente’, a substrato fondante di un nuovo hic et nunc.

La digitalizzazione, inoltre, creando costantemente e rapidamente per il passato, nel dinamismo del presente, produce delle modificazioni ereditabili che stanno portando al cambiamento cognitivo-comportamentale, per cui le nuove generazioni assumeranno un meccanismo intellettivo in parte diverso, non fondato sul dualismo analogico/digitale, ma sull’iper-connessione con la macchina di Turing.

La nicchia ecologica digitale, quindi, si spiega nella nuova essenza antropologica dell’essere loggati. E se il «campo dello storico è la scoperta e la registrazione di ciò che è realmente accaduto» (Adams 1909), necessariamente egli diviene homo-loggatus, rispondendo al prodigio della digitalizzazione, di sconnettere mente intelligente da azione, mente dalla meccanica del corpo, capacità di agire con successo dall’essere intelligenti —comportando, anche per lui, quella dislocazione delle sue attività intellettuali e formali dentro la nicchia digitale. Qui, la narrazione storica amplia in concetto di fonte verso computer, software e algoritmi, i quali, come ogni documento e monumento, sono fatti annotati anch’essi, conservati su media diversi rispetto al supporto cartaceo tradizionale, divenendo, quindi, testimonianza dell’attività umana e dell’uomo che li ha creati. Ancora, però, queste “fonti” si fanno unico mezzo per controllare —e controllarsi!— l’enormità delle informazioni che scaturisce dal digital environment, pur rimanendo immutabile il principio per cui è solamente il risultato dell’azione umana (l’atto) a divenire fonte storica.

Il discorso sulla Storia, quindi, deve spostarsi verso lo storico e sulle possibilità dell’oggettività del suo discorso. La complessità e la matematicizzazione hanno fatto sì che la Storia venisse profondamente influenzata dalle Scienze Naturali (Holt 1940), con linee composite e contraddittorie, mettendo in crisi i concetti statutari e il ruolo che aveva avuto lo storico e la sua metodologia. L’obiettività si poteva —e doveva— ancorare, come teorizzato da Leopold von Ranke, alla critica oggettiva delle fonti primarie e l’assoggettamento di queste a un’intensa analisi epistemologica, attraverso tecniche proprie della Filologia classica (Iggers 1962; Krieger 1977), rifiutando, conseguentemente, le concezioni della Storia emanate dalla Filosofia Morale.

Lo storico ha dovuto mutare la sua metodologia, acquisendo strumenti e competenze diverse; ha mutato la sua essenza, pur cercando di mantenere l’accento sulla natura unica e particolaristica della Storia e a rifiutare l’applicabilità del metodo scientifico al suo studio, che non ha ad oggetto esperienze chimico-fisiche. È questo il percorso, infatti, di Charles H. Hull, il quale sottolinea la condizione di immaterialità dell’oggetto, asserendo che «le unità ultime con cui lo storico si occupa non sono gli atomi, o qualsiasi tipo di astrazione strumentale, le cui differenze individuali possono essere ignorate, ma sono gli uomini e le azioni degli uomini» (Hull 1914). Ma il digital turn impone una riflessione diversa: lo storico deve fare i conti con unità primarie che lo coinvolgono; la nicchia digitale, la rete e le interconnessioni, le procedure computazionali, lo spingono verso la necessità di essere parte narrata dalla sua scienza, a sintesi del suo superarsi e aggregarsi in una nuova entità cognitiva, che non archivia tutto il complesso analogico che ha forgiato lo storico del vecchio secolo; l’homo-loggatus historicus è la sintesi proprio di tale passato che deve plasmare gli umanisti del nuovo millennio, i quali hanno in primis uno scoglio da superare: la loro stessa esistenza analogica, che deve fondarsi sulla necessità di una metodologia la cui profondità richiede un approccio che loro stessi non potranno più fornire senza l’ausilio delle Intelligenze Artificiali. Lo storico deve essere, nel narrare la nuova cenosi, parte di essa, loggando la propria competenza di descrittore del presente.

La sua narrazione diventa, quindi, fortemente logica, ancorata alla scientificità dell’enunciato, che non necessita della retorica sensazionalistica —parlare, ad esempio, del Covid come di un «nuovo flagello divino», non soddisfa il bisogno storico della serialità della scuola annalistica, né si accosta ai significati dell’argomentazione scientifica—, e datificata, in grado di diradare l’invisibilità (Herbst 1972; Dilthey 1883; Croce 2002) degli elementi non meccanici della Storia, per portare lo studioso verso un’esistenza cognitiva che depotenzia la funzione immaginativa (Ideengeschichte) che lo contraddistingueva, la quale, secondo Droysen (Droysen 1868; Ries 2010), ben serviva a legare i fatti visibili alle idee invisibili, annodando l’immaginazione alla fedeltà della realtà. La nicchia ecologica digitale è esplicazione visibile dell’azione dell’uomo, che non si oggettivizza, ma palesa le sue idee e ideologie in comportamenti che diventano perfettamente osservabili, dove anche l’illogicità è compressa in definizioni e dati che la spiegano. L’homo-loggatus, quale unità cognitiva, proprio perché in rapporto con una nicchia complessa e iper-datificata —anche se un’indagine puramente fisico-quantitativa non giungerà ad una spiegazione dell’identità dell’uomo—, può spiegare la sua storicità, ossia il suo essere nella Storia, la quale è sedimentazione di dati (analogici e digitali) prodotti dall’uomo; quindi, quantificazione, ossia soggettività che si traduce in oggettività.

E se la nicchia digitale e l’homo-loggatus comunicano in codice binario, informatico, è ancor più necessaria una svolta significativa anche per il discorso storico, in cui i concetti tendono e devono assumere le caratteristiche dell’enunciato formalizzato e computazionabile: discreto e normalizzato —ossia un sistema comunicativo che, proprio perché non può non ambire ad essere oggettivo, potrebbe essere in grado di superare gli scogli della coscienza storica come mistero insolubile.

Ciò che siamo oggi, è oltrepassabile. L’evoluzione antropologica è nella natura dell’uomo, e il suo biocentrismo (Schelling 2012; 2018; Sisto 2017) lo fa parte integrante del sistema ambientale, che ne determina l’adattamento e le caratteristiche epigenetiche (Goldberg, Allis, e Bernstein 2007; Jablonka e Lamb 2002; Weinhold 2006). Ciò che siamo oggi, è la nuova fase dell’evoluzione —su cui Pepperell ha posto le sue considerazioni (Pepperell 2003)—, che porta l’uomo ad una interazione che non vuole declinarlo, ma adattarlo —se non ora, lo sarà tra qualche tempo la generazione che ci succederà— ad una vita che non muove più dentro significati solamente analogici (per analogia, quindi), ma in una rete in cui ogni singolo homo è snodo e semantica con le macchine e le IA, a cui forniamo —anche inconsapevolmente— dati utili per migliorare il nostro adattamento alla nicchia.

4. Un invito alla riflessione.

Non è semplice scrivere la sezione finale di un testo che mira ad aprire un dibattito su più fronti; su tutti i fronti.

La digitalizzazione è oltre le teorie storiografiche, ma si pone in continuità con esse. Tuttavia, nel nostro mondo, dove ogni singolo giorno ci ricorda che il digitale è un aspetto fondante del nuovo essere, gli storici —temendo il potenziamento delle macchine informatiche e la perdita del loro controllo— preferiscono obbedire, alimentando una comunità autoreferenziale, alle critiche sul presente e al «presentismo», piuttosto che divenire l’elemento edificante e semantico del nuovo sistema cognitivo.

Decidere il significato non sarà prerogativa di IA, algoritmi e altri tool informatici; il “significare” è atto umano. La forza dell’intuizione deriva, sì dalla possibilità di dar significato al mondo, ma si erge sul principio di arbitrarietà —ma non illogicità—, il quale non appartiene alla macchina di Turing, in quanto opportunità intellettuale non derivante da semplice computazione. Questa funzione appartiene agli uomini e, ancor di più, agli storici.

Tuttavia, gli umanisti sembrano sminuire l’opportunità di un dialogo che possa porre in essere un legame tra la Storia e le tecnologie informatiche; e se ciò era vero sessant’anni fa —quando il forte scetticismo divenne palese pessimismo (Judt 1979), nel tentativo di non perdere il controllo politico del campo della ricerca storica— lo è ancora di più oggi.

«No meet this bar», scrive Milligan nel 2019 (Milligan 2019), sottolineando la difficoltà e la chiusura di una generazione di storici che hanno guardato alle loro posizioni teoretiche, ma senza rimettere in discussione —comportando l’assenza di innovazione— lo statuto della Storia.

Dalle teorie storiografiche del XIX secolo, che furono mediana della Scienza Storica —da Wilhelm von Humboldt (Humboldt 1990) a Leopold von Ranke (Ranke e Ramonat 2010) e Marc Bloch (Bloch 1963)—, non v’ha alcuna innovazione nell’approccio epistemico, che si basa ancora sul concetto di “ricerca senza un laboratorio”, tutto fondato sull’intuizione dello studioso (Spina 2022). Tuttavia, le definizioni di una epistemologia della Storia sono la prova di una costante determinazione a costruire una struttura sistematica per il suo statuto, che ha permesso —in un certo qual modo— agli storici di legarsi alle Filosofie della Natura, alle scienze epistemiche-laboratoriali.

Per questo motivo, gli storici non possono recidere il dialogo con l’innovazione digitale, nella misura in cui proprio quest’ultima ha gli strumenti necessari per portare le conoscenze storiche ad uno stato di obiettività impossibile da raggiungere senza tali strumenti informatici, i quali, sul versante della multidisciplinarità, rappresentano il nuovo sistema linguistico della Conoscenza, consentendo alla Storia di essere parte integrante del dibattito scientifico.

Ecco perché ciò che si manifesta è un disequilibrio nelle posizioni ideologiche.

Ancora oggi, pur parlando di digitale, gli storici si trincerano dietro il loro pessimismo, cercando di sfuggire alla nicchia digitale e al venire in essere della biotecnocenosi. Se per gli storici “digitali”, computer e calcolatori sono gli strumenti migliori per studiare le azioni dell’uomo, le società complesse e le dinamiche che hanno segnato —e segnano, oggi come allora— eventi storici significativi e minori, per gli analogici, essi sono collettori di informazioni, che sostituiscono la macchina da scrivere e consentono di visualizzare documenti d’archivio opportunamente fotografati.

Lo sviluppo di analisi computazionali, visualizzazione e interpretazione dei significati linguistici (la forza vincolante di tutte le comunità grandi e piccole), che consentono agli studiosi di guardare agli uomini come nodi di un network di correlazioni, non destabilizzano le posizioni degli storici tradizionalisti, che continuano a non fare i conti con le posizioni di Le Roy Ladurie e alla necessità di una reale formazione che consenta agli storici (Le Roy Ladurie 1968; Rosenberg 2003) la piena comprensione dell’hyperlearning revolution (Perelman 1992) e del digital divide (Dougherty e Nawrotzki 2016).

Il grande compito degli storici è, in realtà, quello di costruire un nuovo heimat —in cui il legame tra umani e computer diventi sistemico (Jouman Hajjar 2021; Pati 2021; Zhavoronkov 2021)—, ri-ontologizzare il mondo, ed essere in grado di catalizzare la conoscenza storica nella direzione della logicità e dell’oggettività.

Gli storici dovranno comprendere il perché della macchina Turing, il suo meccanismo “interiore” e la necessità di assemblare una conoscenza che possa essere rimodellata nella sua linguistica, nei suoi significati, nelle sue rappresentazioni, allo scopo di coniugare il mondo analogico e quello digitale. Essi devono, quindi, svolgere il ruolo di arco di volta del sistema di coesistenza di significati, dove si «ospitano tutti i discorsi […] che sono i principi del tempo»(Hegel 2022), in un momento in cui la proiezione della digitalità è rivolta al futuro (prossimo), in uno spazio-tempo inevitabile, dove gli storici vivranno in una simbiotica interconnessione wireless con la Macchina di Turing, la quale fornirà Intelligenze Artificiali —pensiamo a Transkribus (Muehlberger et al. 2019) e ChatGPT (Zhai 2022; Pavlik 2023; Alshater 2022)— e sistemi informatici che coadiuveranno l’homo-loggatus historicus a tradurre dati e informazioni in una narrazione più oggettiva del passato, ed avere un controllo più efficace della sua diffusione, in un momento in cui, tra polarizzazioni e post-verità, la Storia è diventata un campo aperto, e la comunicazione di rete è interamente basata sull’ideologia della Silicon Valley.

(*) Salvatore Spina. Università degli Studi di Catania, Dipartimento di Scienze Umanistiche salvatore.spina@unict.it

L’articolo è tratto dal volume collettaneo “Cultura Digitale. Relazione, Empatia. Paradigmi della nuova rivoluzione industriale. Ed STAMEN, 2023 ISBN 9791281045293. Si ringrazia l’Editore STAMEN per la gentile concessione alla pubblicazione nella Rivista “Culture Digitali”

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