Il ruolo dell’immaginario nella cultura digitale

Di Giulio Lughi (*) UniTO (www.giuliolughi.it)

Abstract ita

L’immaginario rappresenta un elemento fondante di ogni cultura, perché contribuisce a integrare la conoscenza razionale con lo sviluppo degli aspetti emozionali, fantastici, inconsci. Il paper dà all’inizio delle rapide introduzioni ai concetti di immaginario e di cultura digitale, per poi distinguere due diverse modalità di influsso dell’immaginario sulla cultura digitale.

Da una parte l’immaginario digitale “derivato”, che consiste nella ripresa – mediante la digitalizzazione – di elementi dell’immaginario tradizionale: temi, personaggi, situazioni, generi, stili che vengono rielaborati in una prospettiva di remix culture.

Dall’altra parte l’immaginario digitale “originale”, che viene sviluppato mediante le caratteristiche specifiche delle tecnologie digitali, e che si manifesta in forme astratte, ma dal forte impatto sull’immaginario: l’immagine della rete, che riprende i temi del labirinto, dell’ipertesto, del web; la potenza della grafica 3D, contribuisce alla definizione dell’immersività, della realtà ibrida, dei metaversi; il tema dei big data, connesso con lo sviluppo dei database, degli algoritmi, dell’intelligenza artificiale.

Complessivamente, il ruolo dell’immaginario nella cultura digitale è di controbilanciare la visione tecnocentrica che tende a definire la cultura digitale semplicemente come “nuove tecnologie”, per dare invece spazio ai fattori di emozione e libertà immaginativa.

Abstract eng

The imaginary is a founding element of every culture, because it helps to integrate rational knowledge with the development of emotional, fantastic and unconscious aspects. The paper initially gives a quick introduction to the concepts of imagery and digital culture, and then distinguishes two different ways in which imagery influences digital culture.

On the one hand, the “derivative” digital imagery is considered, which consists in resuming – through digitization – the elements of the traditional imagery: themes, characters, situations, genres, styles, etc. which are reworked in a perspective of remix culture.

On the other hand, the “original” digital imagery is considered, which is developed through the specific characteristics of digital technologies, and which manifests itself in abstract forms that have a strong impact on the imagery: the image of the network, which takes up the themes of labyrinth, hypertext, web; the power of 3D graphics, which contributes to the definition of immersivity, hybrid reality, metaverses; the theme of big data, connected with the development of databases, algorithms, artificial intelligence. In conclusion, the role of the imaginary in digital culture is to counterbalance the technocentric vision which tends to define digital culture simply as “new technologies”, in order to give space to the factors of emotion and imaginative freedom.

Keywords

#immaginario #cultura digitale #cultura ibrida #creatività digitale #reincanto tecnologico

#imaginary #digital culture #hybrid culture #digital creativity #technological reenchantment

Introduzione

Nella strutturazione dei processi culturali l’immaginario svolge un ruolo fondamentale. L’immaginario è il repertorio di configurazioni profonde (sia iconiche, sia narrative) che segnano intimamente la nostra visione del mondo: l’insieme di storie, archetipi, miti, simboli, personaggi, situazioni che plasmano – consapevolmente o meno – i nostri valori, le nostre credenze, le nostre scelte, i nostri comportamenti. Come un erbario è una raccolta di erbe, ordinata in modo da costituire la base per la cultura botanica, così l’immaginario svolge un ruolo fondamentale nella organizzazione della cultura in generale.

Forse più di quanto non faccia il sapere razionale scientifico, che si fonda su procedure esplicite e quindi costantemente verificabili e rinegoziabili, l’immaginario svolge un ruolo di legante profondo, spesso inconscio: un deposito di modelli di comportamento, un luogo di mediazione dei conflitti di mentalità, un terreno dove si confrontano configurazioni mentali, desideri, paure che poi agiscono sulle scelte di vita; inoltre, ad esso è demandato il compito di legare insieme, su un fondo di valori comuni, le diverse generazioni che si susseguono nel tempo.

Ecco perché in questa fase storica, in cui il digitale assume sempre maggiore importanza nei processi di trasmissione del sapere e nelle rappresentazioni sociali, sembra opportuno cominciare a definire il ruolo dell’immaginario nello sviluppo della cultura digitale.

Immaginario

Il concetto di immaginario, e il termine stesso, prendono origine da un saggio di Jean-Paul Sartre (1940) in cui il filosofo affronta da un punto di vista fenomenologico la definizione di ciò che intende per immaginazione e procede ad una classificazione delle varie tipologie di immagine, dando l’avvio ad un vasto campo di studi che si articolerà in diverse direzioni: psicologica, sociologica, antropologica, uscendo alla fine dal campo stretto delle immagini iconiche per investire anche il campo delle costanti narrative ed assumere il più ampio significato di configurazioni culturali.

Alla sua origine, la nascita del concetto di immaginario va messa comunque in relazione con il concreto aumento, durante tutto il Novecento, delle immagini disponibili per la fruizione culturale: un aumento che inizialmente è dovuto alla semplificazione ed economicità dei processi di stampa, per poi crescere esponenzialmente con lo sviluppo dei mass media elettrico-visuali (cinema, televisione) e ancor più con l’avvento del digitale, dove il dilagare dei big data iconici raggiunge volumi quantitativi tali da determinare un vero e proprio riassestamento delle categorie interpretative sul piano qualitativo.

 Parallelamente, sul versante della riflessione teorica, in tutto il Novecento cresce l’attenzione per quella che viene genericamente definita la “società dell’immagine”: con il progetto-atlante Mnemosyne di Aby Warburg e i conseguenti studi iconologici di Erwin Panofsky (1939) ed Ernst Gombrich (1966); con contributi come quello di Walter Benjamin (1936), o quello di André Malraux (1947), che vedono con chiarezza – pur da prospettive diverse – il cambio di paradigma che si impone con l’avanzare della tecnologia e dei mass media; con lo sviluppo dei visual culture studies (Mitchell, 1992; Boehm, 1994) che riconfigurano contestualmente anche il rapporto fra testo e immagine, fra scrittura e comunicazione visuale, in una nuova prospettiva di evoluzione dei processi di trasmissione culturale che amplia il concetto di immagine, e quindi di immaginario, al di là del piano iconico per assorbire anche quello narrativo e giungere al significato di configurazione culturale. Senza contare l’apporto della psicoanalisi, con il concetto di inconscio collettivo come territorio intermedio tra psiche individuale e strutture antropologiche e socioculturali (tra Freud e Jung), fondamentale per dare risalto alle componenti più nascoste, profonde e intime, dell’immaginario: un tema, quello del rapporto fra superficiale e profondo, che vedremo essere centrale nella organizzazione della cultura digitale.

Cultura digitale

Ma cosa intendiamo con cultura digitale?  Partiamo naturalmente da una definizione antropologica di cultura, intesa come l’insieme di comportamenti, conoscenze, norme, sistemi di valori, meccanismi di controllo che una società – in tutte le sue componenti – mette in opera per sopravvivere e possibilmente per vivere meglio.

Questa definizione implica che innanzitutto è necessario distinguere la competenza dalla cultura: le competenze digitali vanno viste come insiemi di saperi pratici che permettono di procedere a corto raggio e su breve durata, fondamentalmente con un approccio tattico: mentre la cultura digitale rappresenta la capacità di adottare una visione a largo raggio e di lunga durata, con un approccio strategico (Lughi, 2006). Le competenze di oggi (software, linguaggi, sistemi, piattaforme, ecc.) sono destinate a invecchiare rapidamente, a causa dell’alto tasso di innovazione che preme costantemente sul digitale: mentre la cultura rappresenta la base teorica profonda che consentirà domani di cambiare software o piattaforma con la piena consapevolezza dei pro e dei contro, e muovendosi in una visione di complessità sistemica.

Allo stesso tempo è opportuno vedere la cultura digitale in prospettiva storica, in quanto essa rappresenta l’ultima (per ora) fase dei mutamenti culturali dovuti al cambio delle tecnologie di comunicazione, in una sequenza per cui guardando al passato distinguiamo chiaramente le diverse fasi: la cultura dell’oralità; la cultura della scrittura e della stampa; la cultura dei mass media; e – oggi, appunto – la cultura digitale. Ognuna di queste grandi stagioni culturali ha sviluppato il proprio immaginario, in stretta relazione con le concrete potenzialità offerte dal relativo contesto di comunicazione.

In estrema sintesi, ecco che quindi l’immaginario dell’età dell’oralità si basa soprattutto sul racconto del mito; o ancora, su un altro piano, sulle narrazioni gnomiche popolari da cui continuerà a svilupparsi fino ad oggi il mondo della fiaba e delle “voci che corrono”.

Con l’età della scrittura manuale il patrimonio mitologico resta centrale nella costruzione dell’immaginario, condensandosi in opere più strutturate (Iliade, Odissea, poi Eneide), trovando peraltro anche la sua realizzazione visuale nel teatro, nella grande tragedia greca, mentre ad esso si affiancano le grandi narrazioni storiografiche e – più tardi – il patrimonio di storie e immagini derivante dalla tradizione ebraico-cristiana. Per quanto riguarda le immagini, va considerato che l’antichità ci ha lasciato poche testimonianze, se non la decorazione su ceramica, gli affreschi conservati in edifici funerari o di culto, o in residenze nobiliari, oltre alla grande statuaria monumentale: ma anche qui sono la mitologia, la storia e la religione a segnare la cifra portante dell’immaginario, affiancate a volte da una sorta di poetica del quotidiano.

Elementi che ritroviamo anche nell’immaginario dell’età della stampa, dove però compare un fattore che sarà destinato a diventare sempre più rilevante: la diversificazione della tradizione culturale. Grazie alla semplificazione (e quindi aumento quantitativo) e “meccanizzazione” dei processi di trasmissione culturale (stampa per i testi scritti; elaborazione della prospettiva per le immagini) l’immaginario, che fino a tutto il medioevo aveva un carattere relativamente unitario, comincia ad articolarsi in diverse tradizioni socio- e geo-localizzate.

Un fenomeno, quello della frantumazione culturale, che diventa macroscopico con l’età dei mass media, con la moltiplicazione delle fonti comunicative e quindi dei punti di vista, con l’affacciarsi sul palcoscenico globale di lingue, culture, gruppi, strati sociali tradizionalmente considerati “altri” che invece portano in scena, a pieno titolo, il loro patrimonio immaginario.

Rispetto a questi antecedenti, la cultura digitale compie un ulteriore cambio di marcia, in quanto porta all’estremo la diversificazione delle voci e dei soggetti di produzione culturale: il web è infatti luogo dove trovano posto sia i grandi potentati della comunicazione sia i microprogetti locali, rimescolando le gerarchie dei soggetti in grado di influenzare la costruzione dell’immaginario, facendo fallire rilevanti iniziative con sostanziosi finanziamenti (Very Bello, ItsArt), e portando invece alla ribalta sconosciuti influencer che scatenano fenomeni come la diffusione dei meme (Tanni, 2020).

Inoltre bisogna considerare che il digitale non è (solo) una tecnologia, ma è anche (e soprattutto) un linguaggio e una logica, in grado quindi di entrare nel profondo dei processi culturali: grazie alla sua capacità di gestire unità di informazione e non elementi materiali, bit e non atomi, la cultura digitale acquista un carattere onnivoro, in grado di assorbire le caratteristiche di tutte le precedenti fasi culturali, obbligandole a riconfigurarsi in un vero e proprio ecosistema globale capace di riformulare i saperi del passato e contemporaneamente di proiettarsi nel futuro.

Anche dal punto di vista dell’immaginario, la cultura digitale presenta questo duplice aspetto: da una parte abbiamo l’immaginario digitale “derivato”, cioè quello ripreso dal patrimonio culturale del passato grazie ai processi sempre più avanzati di digitalizzazione di musei, biblioteche, foto- e cine-teche, archivi musicali, raccolte di documenti, ecc.; dall’altra abbiamo l’immaginario digitale “originale”, quello generato dalle potenzialità tecnologiche specifiche dei linguaggi digitali, che hanno creato configurazioni mentali e culturali impossibili da realizzare – e anche solo da pensare – nel mondo analogico. Nei prossimi paragrafi esamineremo queste due componenti dell’immaginario digitale.

Immaginario digitale “derivato”

Il primo elemento da considerare nella definizione di immaginario digitale “derivato” è la facilità di accesso al patrimonio culturale: enormi quantità di libri, film, musica e altri media sono disponibili grazie ai processi di digitalizzazione, rendendo accessibili ad un ampio pubblico grandi quantità di contenuti di immaginario. Inoltre la distribuzione digitale ha messo in crisi le tradizionali forme di intermediazione  e i poteri dei gate keepers (editoria, studi cinematografici, gallerie d’arte, critici specializzati, ecc.), consentendo a creatori indipendenti di rivolgersi ad un pubblico precedentemente irragiungibile. Ed infine la moltiplicazione di strumenti e piattaforme digitali permette a chiunque di creare – benché quasi sempre a livello dilettantistico – opere di fantasia che hanno determinato la proliferazione di fan fiction, fan art, film indipendenti e videogiochi autoprodotti che abbozzano nuove forme di universi immaginari.

Questa diversificazione delle fonti e grande flessibilità degli strumenti digitali ha dato luogo a quella che viene chiamata remix culture: la ripresa di elementi dell’immaginario tradizionale che vengono reinterpretati e rielaborati per costruire nuovi prodotti. Una modalità tipica ad esempio dei videogiochi, che spesso incorporano elementi della mitologia, del folklore, della cinematografia e della letteratura, adattandoli agli ambienti digitali interattivi; ma anche una modalità che caratterizza il fenomeno dei meme, dove prevale l’aspetto della deformazione ironica o satirica.

Come già segnalava Manuel Castells (1966, 430) agli albori della stagione digitale, ciò che caratterizza il nuovo assetto culturale (che a quella altezza cronologica prende i tratti del multimedia) è proprio una profonda ibridazione di linguaggi, di generi, di contenuti:

…forse il tratto più importante del multimedia è che cattura all’interno della propria sfera la maggior parte delle espressioni culturali, in tutta la loro diversità. L’avvento del multimedia è equivalente alla fine della separazione, e persino della distinzione, tra media audiovisivi e media stampati, cultura popolare e cultura colta, divertimento e informazione, istruzione e persuasione. Ogni espressione culturale, dalla peggiore alla migliore, dalla più elitaria alla più popolare, sfocia in questo universo digitale che collega in un gigantesco ipertesto astorico le manifestazioni passate, presenti, e future della mente comunicativa.

Tuttavia, benché l’ibridazione rappresenti la marca estetica dominante dell’immaginario digitale, va rilevata la persistenza – proprio nel digitale – di alcuni ben determianti generi e stili novecenteschi, caratterizzati dal fatto di essersi sviluppati nell’età della comunicazione di massa: una persistenza che sembra quasi voler mantenere un legame tra i media analogici del secolo scorso e l’età del digitale, così da istituire una sorta di “classicità del contemporaneo”.

Si pensi ad esempio alla fantascienza e al profondo impatto che ha avuto sulla cultura digitale. Molti progressi tecnologici e concetti rappresentati nella letteratura e nei film di fantascienza sono serviti da ispirazione per i nuovi scenari del mondo digitale. Opere come 1984 di George Orwell, Neuromancer di William Gibson e il film Blade Runner diretto da Ridley Scott hanno influenzato sia lo sviluppo di narrazioni distopiche, sia l’estetica cyberpunk, sia gli sviluppi dell’intelligenza artificiale, della realtà virtuale e delle tecnologie futuribili.

O ancora si considerino la letteratura e i film horror: opere classiche come Frankenstein di Mary Shelley e Dracula di Bram Stoker hanno influenzato la rappresentazione di mostri, elementi soprannaturali e situazioni psicologiche estreme molto frequenti nei videogiochi a tema horror e nelle esperienze di realtà virtuale, che grazie all’interattività possono offrire agli spettatori emozioni intense vissute in atmosfere coinvolgenti e terrificanti.

Un posto di particolare rilievo spetta poi al genere fantasy: letteratura e film fantasy, come la saga de Il Signore degli Anelli di John Tolkien, o Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di George Martin (adattate nella serie televisiva Il Trono di Spade), hanno avuto un impatto significativo sulla cultura digitale. La popolarità di queste opere ha nutrito dal di dentro la diffusione di videogiochi a tema fantasy e di giochi di ruolo online che esplorano gli innumerevoli sottogeneri del fantasy: epico, romantico, gotico, metropolitano, ecc. Inoltre, attraverso il fantasy, è confluita nell’immaginario digitale la tradizione narrativa e iconica delle creature fantastiche: dagli antichi bestiari descritti da Baltrušaitis (1955) e immaginati da Borges (1957), alle figure ibride del contemporaneo che prefigurano uno dei tratti tipici dell’utente digitale, l’assunzione di una identità fluida, composita, trasversale, nel momento in cui entra in un videogioco ma anche quando assume una identità “altra” nella frequentazione dei social.

Un’altra componente tipicamente novecentesca che caratterizza l’immaginario digitale proviene dal mondo dei comics: in particolare il genere dei supereroi, reso popolare attraverso i fumetti e successivamente adattato in film di successo con personaggi come Superman, Batman e Spider-Man ha generato una vasta gamma di contenuti digitali, inclusi film, videogiochi, applicazioni mobili, e ha inoltre sviluppato ampie comunità di fan online, particolarmente sensibili allo sviluppo di narrazioni transmediali (come dimostra il successo del Marvel Cinematic Universe e del DC Extended Universe), in cui il digitale funge da infrastruttura legante per tutta una serie di prodotti mediali ma anche per l’interconnessione con il settore del merchandising e con le esperienze dal vivo. Ma non ci sono solo supereroi: si pensi al successo di un antieroe del quotidiano come l’idraulico Mario, la cui cifra stilistica sta improntando di sé gran parte degli attuali metaversi, soprattutto commerciali come ad esempio Gucci Town; o ancora si consideri l’influenza che anime e manga giapponesi hanno avuto sulla cultura digitale, in termini sia di stile visivo sia di tecniche di narrazione.

Infine va menzionato ancora un sottogenere della fantascienza, il cyberpunk: opere come Neuromancer di William Gibson e il film The Matrix diretto dalle Wachowski hanno reso popolari tematiche digitali collocate in un futuro distopico, dando spazio alle problematiche legate all’intelligenza artificiale, alle riflessioni filosofiche e psicologiche sulle realtà virtuali, sul potere degli hacker, sulla fusione di corpi umani con la tecnologia. Parallelamente l’estetica cyberpunk, caratterizzata da paesaggi urbani spesso devastati e illuminati da una luce sinistra, acconciature e abbigliamenti ibridi e immaginifici, atmosfere hard-boiled e high-tech, ha influenzato il design e l’immaginario di numerosi media digitali. Sul piano culturale generale, inoltre, il cyberpunk innesca processi di riflessione critica sulla evoluzione dell’universo digitale, spingendo artisti, creatori di contenuti e utenti stessi ad individuare e sfidare le norme, i valori e le strutture di potere della società contemporanea: mediante l’uso della distorsione satirica, della rappresentazione della violenza urbana, della critica alle contraddizioni economiche e politiche, il cyberpunk ha spinto l’immaginario digitale verso i territori dell’attivismo e dell’intervento sulle questioni sociali.

Come si vede sono molti i temi del passato che filtrano nell’immaginario digitale e vi trovano ampio spazio, dando vita tra l’altro a fenomeni di nicchia che potrebbero essere definiti di nostalgia mediatica: si pensi ai collezionisti di dischi in vinile, o a cultori di amplificatori analogici a valvole, o ancora – sul piano più propriamente digitale – alla popolarità del retrogaming, della pixel art e della musica chiptune, che evocano l’estetica semplicistica delle elaborazioni informatiche a 8 e 16 bit.

Ma al di là di questi fenomeni pittoreschi, ciò che colpisce è la persistenza nel digitale di un paradigma immaginario che presenta dei contorni abbastanza ben definiti, fortemente legato alla precedente età dei mass media e configurato – come dicevamo – come una sorta di “classicità del contemporaneo”: qualcosa di simile all’immaginario di riferimento che Umberto Eco, rispondendo ad un questionario (Benussi – Lughi, 1986, 67) sulle fonti narrative del suo primo romanzo, Il nome della rosa, identificava in questo modo:

…tra gli autori da cui ho appreso come si racconta, metterei molti romanzieri gialli e di SF, ma anche l’Alex Raymond di Flash Gordon e lo Hergé di Tin Tin, il Ford di Ombre rosse e i musical di Broadway.

Quello stesso Eco che – si racconta – amava dire: “Quando ho voglia di rilassarmi leggo un saggio di Engels, se invece desidero impegnarmi leggo Corto Maltese”; una battuta provocatoria, certo, ma anche un segnale – da parte di un attento osservatore dei media – che si stava facendo strada un universo immaginativo basato sulla narrativa di avventura, sui romanzi di serie B, sui fumetti, sullo spettacolo di massa, ecc.: tutto un mondo fantastico destinato a transitare – rielaborato e remixato – nell’immaginario digitale.  Una traiettoria simile a quella descritta da uno dei maggiori studiosi della cultura digitale, David Bolter (2019), che elabora l’interessante categoria di “modernismo popolare” proprio per individuare i fenomeni culturali che nel corso del Novecento passano da una dimensione iniziale di nicchia e di avanguardia, a volte trasgressiva, per diventare poi patrimonio culturale condiviso a livello generalista, prima nei media analogici e poi in quelli digitali.

Immaginario digitale “originale”

Se l’immaginario digitale “derivato” si nutre ovviamente del passato, recuperando temi, trame, personaggi, situazioni, figure ben riconoscibili e attestate nel patrimonio culturale novecentesco, l’immaginario digitale “originale” è caratterizzato piuttosto da elementi astratti, configurazioni strutturali in grado di influenzare l’immaginario in maniera sotterranea. In particolare, come già accennato prima a proposito dell’inconscio, la dinamica fra superficiale e profondo è uno degli elementi nodali della cultura digitale: tutto ciò che vediamo a livello superficiale, sullo schermo di un computer o di uno smartphone, non esiste realmente nella forma in cui lo percepiamo, bensì è frutto dell’elaborazione logica e formale, in tempo reale, di una serie di dati e istruzioni di programmazione annidati a livello profondo, sequenze di 1 e 0 assolutamente incomprensibili all’occhio e all’intelletto umano.

Come afferma Lev Manovich  (2013, 110) in un libro dal titolo significativo, Software Takes Command (“il software prende il controllo”):

…se vogliamo comprendere le tecniche contemporanee di controllo, comunicazione, rappresentazione, simulazione, analisi, processo decisionale, memoria, visione, scrittura e interazione, la nostra analisi non può essere completa finché non consideriamo questo strato del software.

La potenza del software, e la sua capacità di gestire dal profondo gli eventi di superficie, benché spesso non percepite a livello di esperienza comune, incidono marcatamente sull’immaginario digitale: si pensi ad esempio a termini come criptoarte, criptovalute, che fanno riferimento esplicito ad una gestione nascosta di ciò che apparentemente è visibile e palpabile, come gli oggetti d’arte o le valute monetarie.  Un altro esempio potrebbe essere il deep web, luogo virtuale dove si svolgono traffici illeciti destinati però ad avere conseguenze spesso devastanti sul piano della vita reale. O ancora si pensi alla paura del controllo, un tema che certamente risale ai grandi classici della letteratura novecentesca come Il grande fratello di George Orwell, ma assume oggi una valenza particolare proprio per rappresentare una dinamica tipica dell’immaginario: quella di agire nel profondo senza essere percepito  esplicitamente. Ma al di là di questi ambiti specifici, la dinamica tra superficiale e profondo è in realtà pervasiva, e impronta di sé alcuni nodi centrali della cultura digitale.

Rete, labirinto, ipertesto, web

Strettamente legata all’idea di una presenza profonda è l’immagine della rete, infrastruttura sottostante che garantisce la connessione fra tutti gli aspetti del sistema (big/open data, interoperabilità, standardizzazione di formati e protocolli, etc.). Già Manuel Castells (1996) agli albori dell’età digitale individuava come conseguenza diretta del networking la nascita di un nuovo spazio operativo mentale, invisibile ma presente, lo spazio dei flussi, contrapposto al tradizionale e fisico spazio dei luoghi; uno spazio in cui il soggetto è in relazione con persone che si trovano a migliaia di chilometri di distanza, piuttosto che con il vicino di casa. Una condizione mentale che poi ha trovato la sua piena realizzazione con la diffusione dei social e l’introiezione di uno stato di connessione (Boccia Artieri, 2012) diventato ormai una condizione permanente di vita.

Ma l’impronta figurale della rete ha riportato allo scoperto anche un antichissimo archetipo dell’immaginario narrativo e iconico: il labirinto. Tema che risale al mito di Teseo e del Minotauro (e ancor prima), e che ben rappresenta una condizione percettiva ed epistemologica (ma anche psicologica) di perdita della linearità, della sequenzialità direzionale, a favore di una continua molteplicità di scelte possibili. L’immagine della rete rappresenta perfettamente la situazione labirintica, ma non solo: negli anni Novanta del Novecento la teoria degli ipertesti (Landow,  1992) ha dato corpo tecnologico e testuale a questa immagine astratta, ipotizzando una riorganizzazione della nostra visione culturale basata appunto sulla non-linearità, non-sequenzialità dei discorsi, bensì su una configurazione stellare delle microtestualità che implica una visione della realtà e della cultura a-centrata, multipla, mutevole, senza ben definiti punti di attacco e di uscita. Se gli ipertesti come concreti oggetti testuali hanno terminato la loro stagione con la scomparsa dei CD-ROM, non va tuttavia dimenticato che di fatto hanno improntato di sé quella che oggi è l’infrastruttura culturale per eccellenza, il World Wide Web, gigantesco e onnipresente ipertesto che ha abbandonato la dimensione locale per assumere quella globale, diventando una sorta di metafora portante del nostro immaginario collettivo.

Va inoltre ricordato che l’immagine del labirinto permea di sé la struttura dei videogiochi, ormai diventati – a dispetto delle molte critiche, spesso mosse da preconcetti tradizionalisti e da punti di vista poco informati – elementi che contribuiscono a pieno titolo all’immaginario dell’universo mediatico. Tenendo inoltre conto che la gamification è ormai uscita dalla dimensione stand alone del computer da tavolo, per estendersi – grazie alla diffusione dei telefoni cellulari e quindi all’instaurarsi del cosiddetto paradigma mobile-locative (Lughi, 2017) – agli spazi fisici, sorattutto urbani: ne nasce una nuova tipologia di giochi esperienziali, i pervasive game come ad esempio Ingress, che portano all’esterno la dinamica ludico-psicologica rinforzando quindi la connessione fra archetipo labirintico e tecnologie digitali.

Tridimensionalità, immersività, realtà ibrida, metaversi

Un altro tratto caratterizzante dell’immaginario digitale “originale” è il grande cambiamento avvenuto nelle tecniche di rappresentazione visuale, in particolare nelle immagini 3D, da cui si è sviluppato un variegato ambito di applicazioni che nel loro insieme vengono etichettate come “immersività”. Qui siamo in presenza di un’innovazione tecnologica che non è riconducibile al mondo pre-digitale della rappresentazione bidimensionale: anche la prospettiva pittorica, grande innovazione rinascimentale che consente di immaginare una visione tridimensionale, è in fondo solo un artificio mentale; e anche il cinema, potente macchina visuale costruttrice di mondi fantastici, obbliga ad assumere un unico punto di vista rispetto allo schermo bidimensionale.

La rappresentazione digitale tridimensionale degli spazi fisici può invece prendere corpo e svilupparsi in modo nativo solo con l’avvento del digitale, grazie alle tecniche di interattività che consentono di ricalcolare e riorganizzare in tempo reale – a seconda del punto di vista assunto dallo spettatore – gli infiniti punti che compongono l’immagine digitale: sia che utilizzi semplicemente un mouse per muoversi dentro uno schermo; sia che muova un dispositivo mobile di realtà aumentata nello spazio fisico; sia che indossi un visore di realtà ibrida.

L’ impatto sull’immaginario della grafica 3D deriva dal fatto che, mentre inizialmente veniva utilizzata soprattutto nei videogiochi, successivamente ha  investito anche i prodotti culturali e di intrattenimento: i tradizionali campi del cinema e dell’arte si trovano ora ad affrontare la concorrenza di un’ampia galassia di applicazioni (Virtual Reality, Augmented Reality, Mixed Reality, Extended Reality, Enhanced Reality, 3D Graphics, 360° Photo/Video, Real Time Experience, Immersive Experience…) che aprono nuovi scenari di spettacolarizzazione che non possono non incidere sulla formazione dell’immaginario.

La frontiera più avanzata dell’immersività sembra essere oggi il metaverso, un meta-universo tridimensionale e interattivo il cui antenato dovrebbe essere concettualmente il World Wide Web, dove però, invece di muoversi da una pagina all’altra, i soggetti (in forma di avatar) si muovono da un ambiente tridimensionale all’altro, e inoltre possono vedersi e interagire in una sorta di social media visuale avanzato. Un’ipotesi in realtà ancora lontana in quanto, mentre nel web in un certo momento storico hanno prevalso le istanze di standardizzazione e unificazione, oggi non esiste un unico metaverso standard, interoperabile, bensì ci sono tanti metaversi differenti guidati da logiche aziendali fortemente proprietarie, incompatibili tecnologicamente e quindi non comunicanti: isole nella corrente, che proprio per questa loro distanza non possono ancora esercitare quell’impatto culturale che la struttura unitaria del web, e la sottostante immagine forte della rete, hanno esercitato sull’immaginario collettivo.

Dati, database, algoritmi, intelligenza artificiale

Un altro tratto “profondo” che caratterizza la cultura digitale, e quindi il suo immaginario, è la possibilità di scomporre qualsiasi testo complesso (libro, film, immagine…) in elementi minimi, di ridurre quindi il continuum a discreto, e di considerare quindi la testualità come un processo ininterrotto di frammentazione e ricomposizione.

A fronte della cultura pre-digitale, basata sull’universo del libro, e poi del cinema, della radio e della tv, e quindi fondata su una dimensione lineare e sequenziale, con il digitale prende corpo una cultura del database, basata su tabelle e matrici, e sulle molteplici relazioni intercorrenti fra i vari microelementi che le compongono. Ne deriva una strutturazione culturale  di tipo combinatorio, che emerge chiaramente, ad esempio, quando si consulta uno dei più grandi repertori di materiale culturale e immaginativo esistenti, Google Arts & Culture, dove gli oggetti culturali sono individuati dall’incrocio delle molteplici chiavi di ricerca: luogo, collezione, mezzo espressivo, movimento artistico, personaggio, evento, ecc. Come rilevava provocatoriamente Gert Lovink (2008, 127): “We no longer watch films or TV; we watch databases…”; che è esattamente quello che si fa quando si apre la homepage di un servizio di streaming come Amazon Prime, o Netflix, o Now, ecc.: si scelgono le zone geografiche, gli ultimi successi, i generi, o altro, giungendo all’oggetto testuale desiderato attraverso il filtraggio delle categorie del database soggiacente.

Nei casi appena visti è ancora l’utente a muoversi autonomamente nella costruzione del proprio immaginario, ma in realtà l’universo dei big data ha ormai raggiunto dimensioni tali che la sua gestione e consultazione sono fuori dalla portata dell’utente umano, al punto che vengono gestite da programmi elaborati specificatamente per la gestione dei dati: gli algoritmi. L’influsso degli algoritmi sull’immaginario è sottile ma potente, in quanto si manifesta ad esempio nelle procedure di recommendation e collaborative filtering che perimetrano il ventaglio delle possibilità di scelta (di acquisti, viaggi, programmi, film, cibi, ecc.) dell’utente, basandosi sulle sue scelte precedenti e su altri suoi parametri personali: ogni volta che l’utente mette un like sui social, guarda un video su Youtube, compra un libro su un sito online, prenota un viaggio, o compie qualsiasi azione sul web, in realtà fornisce i dati che servono agli algoritmi per definire l’immaginario digitale in cui l’utente stesso si muove; o ancora, su un altro piano, gli algoritmi sono da anni presenti nei dispositivi fotografici, dove condizionano e “normalizzano” il gusto figurativo generale proponendo i cosiddetti filtri per le immagini, o – in maniera inconsapevole per l’utente – “migliorando” autonomamente la ripresa fotografica.

Procedure che si affinano ulteriormente con la diffusione sempre più capillare dell’intelligenza artificiale: un esempio particolarmente efficace viene dai programmi di generative AI, software di facile utilizzo che sono in grado di produrre autonomamente – in base ad un breve input scritto dell’utente – delle immagini relativamente accurate e anche complesse. Sono innovazioni tecnologiche in grado di influenzare pesantemente la costruzione dell’immaginario: ci troviamo infatti davanti ad un sistema in grado di sviluppare una sorta di sua “conoscenza” della storia dell’arte e dell’illustrazione, di classificare il patrimonio culturale del passato, di riconoscere diversi stili, tecniche, correnti, scuole. L’Intelligenza Artificiale setaccia i repertori e la rete imparando (machine learning) a capire, raccogliere, ordinare, classificare ciò che “vede”, allo stesso modo in cui gli storici dell’arte, i critici, i conoscitori, gli artisti elaborano i loro parametri di gusto e di giudizio: visitando musei, leggendo saggi e riviste specializzate, frequentando artisti, discutendo con altri esperti, ecc. Come l’insieme delle immagini viste, l’immaginario figurativo, è la fonte della conoscenza teorica del critico, nonché delle capacità espressive dell’artista; così, in modo molto simile, l’insieme dei dataset di immagini consultati costituisce l’immaginario dell’Intelligenza Artificiale, la fonte tanto della sua “conoscenza” storico-teorica quanto delle sue capacità generative, e quindi della sua capacità “autonoma” di agire nei processi di costruzione culturale.

Reincanto tecnologico

Come si diceva all’inizio, l’immaginario costituisce un elemento fondante di ogni assetto culturale, contribuendo ad integrare la conoscenza razionale con la coltivazione degli aspetti più emozionali, inconsci, legati alla dimensione fantastica e nascosta.

Di conseguenza, una riflessione sul ruolo dell’immaginario nella cultura digitale deve innanzitutto liberarla da una sorta di ipoteca tecnologica, fondamentalmente riduzionistica, che troppo spesso ha fatto etichettare la cultura digitale semplicemente come “nuove tecnologie”. Certamente, nel digitale l’aspetto tecnologico è fondamentale, ma come si diceva sopra il digitale non è (solo) una tecnologia ma anche (e soprattutto) un linguaggio e una logica, in grado quindi di dar vita anche alla rappresentazione dei bisogni emozionali, della sensibilità, dei desideri, della dimensione onirica.

Un concetto utile per inquadrare questa complessità potrebbe essere quello di Reincanto Tecnologico (Lughi, 2013): un concetto che trae la sua origine da quello di Disincanto, enunciato originariamente da Max Weber nel 1919 con riferimento all’avvento dell’età industriale alla metà dell’Ottocento. Secondo Weber il Disincanto sarebbe un processo culturale legato alla fine della società contadina e del sistema produttivo preindustriale: un processo che ha portato con sé la laicizzazione della cultura e il conseguente appannamento della dimensione magico-religiosa, mitica e fantastica (relegata casomai ad ambiti ristretti e marginali), con un forte spostamento generale verso la razionalizzazione e l’intellettualizzazione. L’età industriale ha rappresentato il trionfo della razionalità produttiva e ha prodotto una sovrastruttura culturale formale e istituzionalizzata, entro cui l’uomo ha perso la visione prodigioso-simbolica dell’universo tipica dei secoli passati; rispetto a questa dimensione, l’ipotesi del Reincanto Tecnologico tende a mettere in evidenza le straordinarie capacità dei linguaggi digitali di creare mondi virtuali, regni fantastici e realtà alternative, che consentono agli utenti di sviluppare esperienze estetiche e di intrattenimento impensabili nel mondo analogico.

Con questo si conferma il carattere onnivoro e onnicomprensivo del digitale che da una parte è diventato ormai il gestore di tutta la dimensione organizzativa e produttiva di aziende, amministrazioni, istituzioni scientifiche: in una parola, il gestore del ­razionale­; ma dall’altra parte – e con gli stessi strumenti e linguaggi  – può dar corpo alla dimensione estetica e fantastica, ed essere il gestore dell’immaginario. In questo processo hanno svolto un ruolo determinante i videogiochi, il cui successo planetario è il segnale più evidente dell’instaurarsi proprio di una dimensione fantastico-tecnologica (Pecchinenda, 2004): una dimensione nativamente ibrida, che esibisce tratti marcati dell’immaginario del passato, ma al tempo stesso nasce e si sviluppa dentro l’universo culturale del digitale. L’uomo postmoderno è un uomo irrimediabilmente coinvolto­ tecnologicamente, immerso sempre più nel mondo delle realtà virtuali che lui stesso ha creato, un mondo ormai lontano dagli immaginari fantastici dei suoi antenati, che però proprio con l’impiego delle tecnologie più avanzate ha la possibilità di recuperare la sua dimensione incantata e fantastica. Se nella visione disincantata di Weber l’immaginario resisteva nonostante la tecnologia, nella visione postmoderna del Reincanto l’immaginario rinasce invece grazie alla tecnologia. Come sostiene esplicitamente Maffesoli (1998):

La postmodernità … è proprio la sinergia tra arcaico e tecnologico. Ribaltando l’idea weberiana della tecnica come disincanto del mondo, dico che oggi la tecnica è il reincanto del mondo.

Complessivamente, ciò che l’immaginario porta nella cultura digitale è quindi un forte coinvolgimento emotivo ed estetico: lo sviluppo di ambienti digitali visivamente affascinanti, le narrazioni interattive, le esperienze performative ibride, sono tutti elementi che prendono possesso delle potenzialità tecnologiche per suscitare forti risposte emotive. Che si tratti di videogiochi, realtà virtuale o arte digitale, la dimensione dell’immaginario fa salire di livello l’esperienza complessiva dell’utente e stimola emozioni, curiosità, sorpresa, a volte sconcerto e disorientamento.

Inoltre l’immaginario favorisce e alimenta i processi di innovazione culturale e creatività digitale, dando la possibilità di immaginare e creare nuove idee, nuove soluzioni, nuovi contenuti. Portando avanti le loro capacità immaginative, le persone possono mettere alla prova le potenzialità della tecnologia in modo da sviluppare nuove applicazioni, nuove esperienze, nuove espressioni artistiche.

L’immaginario ha anche contribuito in modo decisivo a sviluppare nella cultura digitale delle identità ibride, rendendo labili i confini tra mondo fisico e mondo digitale, esplorando territori borderline in cui le persone possono creare avatar virtuali che a loro volta incorporano elementi di cultura immaginaria. Ciò consente la sperimentazione espressiva del Sé e dell’Altro in forme non esperibili (e impensabili) nel mondo offline, come emerge chiaramente dalle dinamiche interpersonali mediate nell’universo dei social.

Il rapporto fra immaginario e cultura digitale è di continuo interscambio e nutrimento; come già scriveva Edgar Morin (1962, 11) a proposito della cultura dei mass media:

Una cultura fornisce dei punti di appoggio immaginari alla vita pratica, dei punti d’appoggio pratici alla vita immaginaria: alimenta l’essere fra reale e immaginario che ciascuno secerne all’interno di sé (la propria anima); e l’essere fra reale e immaginario che ciascuno secerne all’esterno di sé, e di cui si ammanta (la propria personalità).

Il ruolo dell’immaginario nella cultura digitale è quindi quello di attivare questa dinamica nelle forme proprie specifiche del digitale, depotenziando la visione riduzionista che tende a farne un semplice strumento tecnologico, per attivare – nelle forme proprie della contemporaneità – quella dinamica circolare fra libertà immaginativa e formalizzazione istituzionale che garantisce il funzionamento della struttura sociale.

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Giulio Lughi (www.giuliolughi.it) è stato professore di Media Digitali nell’Università e nel Politecnico di Torino, Visiting Scholar alla Brown University di Providence (RI), ha svolto ruoli gestionali e organizzativi istituzionali nell’ambito del digitale, fa parte di comitati scientifico-editoriali di varie riviste specialistiche. Fin dagli anni ’90 pubblica articoli e volumi sull’impatto del digitale in ambito umanistico, su cultura e tecnologia, strutture dell’immaginario, creatività digitale, interattività, storytelling, ed è stato consulente editoriale, autore, traduttore, editor nel campo della narrativa.

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