La democratizzazione digitale della professione creativa

di Lorenzo Imbesi, Direttore Centro Interdipartimentale Sapienza Design Research, presidente Cumulus Association

La diffusione delle nuove tecnologie e la relativa semplicità d’uso dei software ha contribuito allo sviluppo ed alla diffusione di un eccezionale flusso di giovani creativi a livello globale, testimoniato dal moltiplicarsi delle scuole e delle università legate alle professioni del progetto, come anche degli eventi e delle fiere per la promozione del design. Non c’è metropoli globale oppure capitale internazionale che non vanti ormai un design week, oppure qualche fiera del settore dove mettere in mostra la produzione creativa giovanile.

Il sito Domestika, attraverso il quale è possibile implementare le proprie competenze anche al di fuori del sistema universitario

Altrettanto, l’offerta educativa si è incredibilmente ampliata e variegata e i giovani studenti hanno ormai imparato a muoversi in una dimensione globale attraverso percorsi formativi molti più complessi ed eterogenei, nelle durate, nei titoli come nelle specializzazioni. Con la democratizzazione degli strumenti del progetto e delle tecnologie per la produzione, il design smette di essere una professione elitaria, per diventare una “professione di massa” che si esprime nella gestione di processi più che di prodotti. Se da un lato il designer sembra smettere il ruolo dell’eroe positivo che crea forme uniche per la salvezza della società, emerge al contrario una diffusa domanda di progettualità al servizio dell’economia dell’esperienza e dei servizi, composta soprattutto da fattori immateriali e creatività. Forse anche per questo la nozione di progetto ormai viene spesso sostituita dal concetto stesso di creatività, che apre a nuove dinamiche e obiettivi.

La revisione del ruolo sociale del progettista e del progetto tout court come fenomeno sociale ne ha moltiplicato le figure professionali in ogni settore e livello della produzione, come l’art director, il modellatore virtuale, l’interior designer, il product manager, il web designer, determinando anche la relativa precarizzazione ed una difficoltà strutturale ad emergere, ingrassando al contempo spesso un’economia informale sommersa. Se il capitalismo della modernità aveva al centro la valorizzazione della proprietà e dei beni materiali impegnati nella produzione e nell’industria, la cosiddetta era postindustriale investe nel capitale immateriale della conoscenza e altrettanto il lavoro fisico della fabbrica è stato sostituito dal lavoro della mente, ormai considerata la principale forza-lavoro in grado di generare valore.

La Dutch Design Week del 2021 ad Eindhoven

È il progetto stesso a diventare un servizio, più che essere sottomesso alla logica della reificazione, della produzione di “cose” fisiche: attività più o meno intangibili tra “fare” e “sapere”, fornite a supporto per la risoluzione di problemi specifici in una rete collaborativa di attori in cui ogni segmento contribuisce alla determinazione del risultato finale. Più che la solidità materiale, sarà la qualificazione del fattore umano stesso nella fornitura del servizio ad attestarne la performance ed il livello di soddisfazione del consumo. Il processo di digitalizzazione pervade ogni segmento dell’attività professionale, scandendone tempi e modalità e così riducendo l’intero processo progettuale alla produzione e al trattamento di informazioni rielaborate dalle conoscenze e dalla creatività messi al lavoro. Il computer diventa lo strumento di lavoro assoluto e altrettanto la maneggevolezza del software, rispetto agli strumenti che richiedevano speciali attitudini e abilità congenite – si pensi alla manualità per il disegno – apre ad una vasta ed inedita platea di giovani creativi che prima non avrebbero trovato accesso.

Così, il ritmo di aggiornamento dei software ne misura i tempi di innovazione dei prodotti e l’educazione al progetto diventa formazione permanente ed update verso tecnologie che ne modificano in continuazione i profili. L’operatore creativo, nella fatica quotidiana a produrre sé stesso gestendo idee, saperi e tecniche tramite flussi informativi, deve costantemente aggiornare e reinvestire le sue conoscenze attraverso l’addestramento continuo, allo scopo di valorizzare in senso riflessivo il suo “capitale fisso” cognitivo, secondo l’appellativo che userebbe André Gorz.

Philippe Stark, designer di fama oramai considerato alla stregua di un brand

La mobilitazione continua di questa forza-lavoro viva attraverso uno sforzo continuo di elaborazione creativa – anche nei momenti di non-lavoro si formano e si trasformano le proprie conoscenze e abilità – ne colonizza conseguentemente ogni momento della giornata, rendendo fittizia ogni distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro: le attitudini relazionali, la dimensione affettiva ed emotiva, il linguaggio, le capacità di cooperazione, tutto nella quotidianità viene investito per produrre valore. L’antropologia del giovane designer disegna così, soprattutto con l’imporsi delle nuove tecnologie, uno strato di “proletariato creativo”, o meglio con un vivace neologismo di “cognitariato creativo” (proletariato cognitivo della creatività) che, nel rispondere ad una domanda di estetica diffusa, è costretto a reinventare quotidianamente il proprio ruolo, generando nuovi prodotti e servizi, come nuovi mercati e modelli di consumo. L’emergenza di questa nuova figura con attitudini alla mobilità ed all’innovazione, si diffonde nelle metropoli globali della cultura un po’ come l’antenato ottocentesco impiegato nella catena di montaggio costruisce la cité industrielle della fabbrica, con le dovute differenze.

L’ascesa della classe creativa, preconizzata da Richard Florida, si situa per motivi strategici nelle città della cultura, che sole possono competere nello scenario internazionale per energie, risorse umane, intelligenze collettive, infrastrutture, diventandone agente di sviluppo. Solo qui, i giovani creativi possono trovare quell’humus di industria, finanza, tecnologie, formazione, editoria, ma anche relazioni sociali e scambi che ne fertilizzano in maniera positiva il lavoro, aprendo opportunità di valorizzazione e allo stesso tempo di innovazione. Nella società della conoscenza, in cui “tutti progettano”, se è vero che il computer è diventato lo strumento di produzione per eccellenza, altrettanto la sua conquistata accessibilità, riavvicina di nuovo il lavoratore ed il suo prodotto, aprendo a nuove esperienze progettuali e nuove economie. Questo homo flexibilis del progetto spesso si fa imprenditore di sé stesso, costruendo nuovi scenari biografici e soprattutto produttivi attraverso la sperimentazione di forme di autoproduzione che sviluppano nuove chiavi critiche al di là della commerciabilità immediata.

Con l’ausilio delle tecnologie dell’informazione e l’avanzamento della prototipazione rapida e la relativa accessibilità, il progettista per la prima volta può chiudere da solo il cerchio della produzione, interpretando in maniera autonoma tutte le azioni che vanno dal progetto, alla produzione, alla distribuzione, fino alla comunicazione e la vendita. Il giovane designer, che ha ormai imparato a sfruttare la possibilità di connettersi autonomamente a rete in maniera collaborativa con i suoi coetanei, incorpora in maniera imprenditoriale nel proprio ufficio tutte le dimensioni produttive e il suo nome può essere utilizzato come una vera e propria marca: l’atelier di progettazione si rinnova in ufficio di design management; il laboratorio di prototipazione diventa fabbrica che produce piccole serie; i compiti dell’agente per la distribuzione possono essere assolti da portali internet ed e-commerce; altrettanto cura tutti gli aspetti legati alla comunicazione disegnando il packaging, elaborando la corporate identity e tutti gli aspetti strategici per il marketing di prodotto, perfino curando l’allestimento dei punti vendita e la vendita stessa, come spesso accade in molte delle fiere internazionali di design, a cui non mancano di autopromuoversi.

Giorgia Lupi e Kaki King: The data we don’t see, il concetto di multidisciplinarietà del progetto

Questo cambiamento antropologico del giovane designer, o se si vuole del creativo tout court, coincide con il passaggio storico in ogni settore produttivo dalle forme di organizzazione tayloristica del lavoro, che ne avevano segmentato in maniera scientifica le attività per ottimizzarne il rendimento, all’economia della conoscenza, che ricompone insieme le fasi di concezione e di esecuzione attraverso forme di cooperazione e di comunicazione interna, che ne fanno emergere le componenti più creative e di innovazione. In questo senso, è vitale per un progettista comprendere ed allo stesso tempo essere connesso al proliferante network globale del design, al fine di sviluppare nuove forme di lavoro e di collaborazione, come altrettanto raggiungere i luoghi del mondo dove la ricerca e l’innovazione avanzano nella direzione di nuovi scenari per il progetto. Il cognitariato creativo del progetto scopre così nuove capacità di autorganizzazione che aprono alla sperimentazione di esperienze di self-brand, lasciando apparire uno spazio spontaneo e alternativo che si affianca, spesso intrecciandosi, alla produzione ufficiale e diffondendo potere di progetto.