La digitalizzazione della cultura è a tutti gli effetti un nuovo asset per imprese e istituzioni culturali, ma deve trasformarsi anche in un’opportunità per il capitale umano.

Di Michele Nitti, VII Commissione permanente Cultura istruzione Camera dei Deputati

La digitalizzazione ha cambiato il nostro modo di comunicare, ma anche di recepire le informazioni, e dunque di trasmettere la conoscenza. Questa pervasività riguarda sempre più da vicino il mondo della cultura, inteso nell’accezione più ampia del termine e nella duplice dimensione di materialità e immaterialità: dalle attività performative ai siti archeologici, dai musei agli archivi e alle biblioteche.

Se durante la pandemia il digitale è stato decisivo per garantire la continuità della fruizione culturale fortemente compromessa per via delle ripetute chiusure al pubblico, è altrettanto evidente quanto il processo di digitalizzazione parta da molto più lontano e abbia raggiunto livelli sempre più elevati di diffusione e complessità nel corso degli ultimi anni.

Alcuni dati recenti: ormai il 70% dei musei, monumenti e aree archeologiche italiani offre almeno uno strumento digitale a supporto dell’esperienza fisica della visita. Nel 2021 l’80% dei musei, monumenti e aree archeologiche hanno realizzato in varie forme (laboratori e attività didattiche, tour e visite guidate, workshop divulgativi, podcast, corsi di alta formazione online, videogiochi) contenuti fruibili, anche o esclusivamente, online.

Come ogni rivoluzione, la digitalizzazione della cultura ha tratti ambivalenti. Da un lato predomina l’incontestabile opportunità, legata alla versatilità della tecnologica, di intercettare nuovi segmenti di pubblico e fruitori, di promuovere nuove sperimentazioni tra mezzo e linguaggio nonché di ridefinire le modalità stesse di interazione tra pubblico e dimensione artistica. Dall’altro, non si può ignorare una serie di rischi e fraintendimenti.

In questa tensione costante tra incognite e opportunità tenta di muoversi la politica, consapevole di quanto il potenziamento e lo sviluppo digitale siano dirimenti per la partecipazione e la diffusione culturale ma anche del carico di responsabilità che da essa scaturisce.

Il monopolio della digitalizzazione extra-Ue

Con l’esplosione del digitale negli ultimi due anni, a titolo di esempio, la creatività ha trovato terreno fertile nell’online, garantendo ai colossi della rete enormi fonti di guadagno. Ma ad essere investite da questa crescita esponenziale sono state – unicamente o quasi –  le piattaforme che, già prima della pandemia, erano talmente note e solide sotto il profilo economico da poter sviluppare nuove formule basandosi sulle più ampie garanzie di sicurezza.

L’oligopolio della gestione del patrimonio culturale italiano ed europeo da parte di attori extra-Ue è, infatti, uno dei problemi che non si dovrebbe eludere. Il rischio maggiore, in questo senso, è che l’incalcolabile valore dei nostri beni artistici, paesaggistici e archeologici venga veicolato a livello globale esclusivamente da piattaforme sì potentissime e prestanti, ma che già occupano una posizione dominante e che sono state pensate e sviluppate lontano dal nostro paese, in Cina o nella Silicon Valley

A ben pensarci, che l’Italia affidi la digitalizzazione dei propri beni culturali a grandi centri di potere digitale dislocati in aree extra-Ue rischia di essere una contraddizione oltre che un errore esiziale, dal momento che questa modalità finisce per determinare una diminutio del valore intrinseco e complessivo del nostro ecosistema culturale. Se, ad esempio, la gran parte dei musei italiani accordi la possibilità di fruire digitalmente del proprio patrimonio a Google Arts & Culture, è evidente che a beneficiarne non saranno direttamente i musei, ma Google stessa. È invece opportuno che l’Europa e l’Italia diventino protagoniste nella produzione di tecnologie digitali che ambiscano ad avere un forte impatto a livello globale. Per farlo occorre una cooperazione virtuosa tra numerosi attori, ivi inclusi quelli politici, che sappiano guidare e supportare lo sviluppo  di tipologie di innovazione nel nostro Paese.

Preservare il capitale umano

Ernesto Ottone, Assistente Direttore Generale dell’Unesco per la cultura, ha definito al Guardian un paradosso “il fatto che il consumo globale di contenuti culturali e la dipendenza degli stessi sono aumentati, eppure al tempo stesso chi produce arte e cultura ha sempre più difficoltà a lavorare. Dobbiamo quindi ripensare a come costruire un ambiente di lavoro sostenibile e inclusivo per i professionisti culturali e artistici che svolgono un ruolo vitale per le società di tutto il mondo”.

Il tema è molto spinoso: la digitalizzazione è a tutti gli effetti un nuovo asset per imprese e istituzioni culturali, ma deve trasformarsi anche in un’opportunità per il capitale umano. Ed è su questo punto, in particolare, che la politica deve intervenire individuando una solida cornice di norme che salvaguardino le professionalità dei nostri operatori culturali e ribadendo l’assoluta rilevanza delle risorse umane in questo processo di transizione.

La tendenza allo skipping e il primato dell’interruzione

Nel tempo del multitasking e dell’iper-connessione, uno degli aspetti da monitorare con più attenzione concerne proprio la modalità di fruizione digitale degli oggetti artistici da parte dei più giovani. Di fronte a un’offerta sterminata, facilmente accessibile e a portata di click, si ripropone il grande dilemma: opportunità di conoscenza quasi illimitata, certo, ma a che prezzo? Oggi lo skipping è quasi la cifra antropologica di fruizione di qualunque prodotto artistico. Bastano pochi secondi di ascolto di una melodia (o di visione di una serie tv) e, se questa non cattura, si clicca su un tasto per passare a quella successiva. I supporti tecnologici spingono inevitabilmente i fruitori ad uno scarso approfondimento: un minuto, massimo due e poi via al contenuto successivo.

Questo aspetto è stato esaminato con attenzione dal rapporto “La trasmissione della cultura nell’era digitale”, elaborato dal Censis e dalla Treccani nell’ottobre 2015. Già sette anni fa si evidenziavano le possibili conseguenze del passaggio a una modalità conoscitiva basata sulla simultaneità e sull’ipertestualità. “Sembra affermarsi – dice il rapporto – il primato dell’interruzione rispetto alla concentrazione, della frammentazione rispetto alla continuità, del tempo presente e non della temporalità sedimentata, dell’attualità sull’esperienza. Non si tratta di un semplice cambiamento dei consumi culturali, dunque, bensì dello stile conoscitivo stesso, della tecnica della conoscenza: un cambiamento in cui i supporti tradizionali per produrre, conservare, trasmettere ed elaborare il sapere risultano progressivamente soppiantati dai nuovi dispositivi digitali, secondo un processo che si accompagna alla crescente disaffezione nei confronti della lettura tradizionale”.

Didattica digitale in pandemia: un’occasione mancata?

Un altro ambito fortemente investito, durante la pandemia, da una ineluttabile accelerazione dei processi legati al digitale è stato quello didattico: la didattica a distanza, però, ha assunto sin da subito il carattere di mera sostituzione della lezione in presenza, ponendo in essere tutta una serie di riflessioni e speculazioni. Ha insomma prevalso la dimensione emergenziale, e l’utilizzo della didattica digitale ha svolto un ruolo conservativo dell’impianto pregresso di trasmissione del sapere. Un’occasione mancata, certo anche per via delle contingenze e dell’urgenza. Durante i mesi di lockdown e di chiusura delle scuole l’impostazione trasmissiva del sapere ha continuato a essere prevalente anche con la mediazione delle piattaforme digitali, replicando di fatto lo stesso paradigma rodato in presenza nelle aule, ma senza saper cogliere l’occasione per guidare il necessario cambiamento verso una didattica più ricca di elementi partecipativi, collaborativi ed innovativi. È ragionevole credere che sia proprio il coinvolgimento diretto degli studenti, la loro partecipazione, la loro stimolazione a un uso virtuoso e utile della rete l’unico vero strumento che possa scongiurare i rischi sempre più concreti del “primato dell’interruzione rispetto alla concentrazione”.

Un osservatorio del Mic per l’innovazione digitale nei beni e attività culturali

Per supportare l’intero ecosistema culturale nel far fronte al cambiamento, per governare le contraddizioni e i rischi cui abbiamo accennato serve, insomma, una presenza politica forte, un dibattito articolato e una riflessione profonda.  In questo senso ci viene in soccorso un’esperienza virtuosa già attiva nel nostro Paese: ci riferiamo all’Osservatorio Innovazione Digitale nei Beni e Attività Culturali del Politecnico di Milano, che sviluppa da tempo una serie di preziose riflessioni per costruire un approccio strutturato e di medio-lungo periodo all’innovazione digitale. Tra gli obiettivi dell’Osservatorio figurano la fornitura di una visione sistemica dell’innovazione digitale applicata ai processi di conservazione, valorizzazione, gestione, promozione, commercializzazione e fruizione del patrimonio, dei prodotti e servizi nel mercato dell’arte e della cultura; il monitoraggio dei trend digitali del settore; la facilitazione dell’allineamento tra domanda e offerta di innovazione attraverso tavoli di lavoro su tematiche specifiche; la sensibilizzazione degli attori e dei decisori verso una trasformazione digitale sostenibile.

La strada è proprio questa: istituire un Osservatorio Ministeriale con le stesse funzioni di quello del Politecnico di Milano, che sappia coordinare e indirizzare l’innovazione concentrando la ricerca all’interno del Ministero della Cultura.

Ciò appare tanto più rilevante se si allarga la prospettiva guardando agli intenti delle politiche nazionali in materia di beni culturali. All’interno del nostro Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) – che raccoglie il 90% delle risorse totali previste dal piano Next Generation EU – vengono, infatti, stanziati 6,68 miliardi per la Componente 3 (Turismo e Cultura 4.0) della Missione 1 (Digitalizzazione, Innovazione, Competitività, Cultura e Turismo). A questi fondi, provenienti direttamente dal PNRR, va ad aggiungersi 1 miliardo e 46 milioni di euro proveniente dal Fondo Complementare per un totale di 8,13 miliardi di euro. Sarà decisivo che una quota di queste risorse venga impiegata per interventi strutturali e capaci di assecondare la domanda sempre più pressante di digitalizzazione nei settori della cultura, alla luce delle numerose problematiche cui abbiamo accennato.

Michele Nitti

Direttore d’Orchestra e parlamentare della Repubblica Italiana, membro della VII Commissione Cultura, Scienza e Istruzione presso la Camera dei Deputati.

Alla VII Commissione, si è occupato in particolare dell’introduzione l’insegnamento della storia della musica nella scuola superiore, della digitalizzazione delle tesi di laurea degli studenti iscritti ai corsi di studio di secondo livello presso gli istituti di alta formazione artistica, musicale e coreutica, nonché la regolamentazione delle attività formative degli studenti con disabilità nelle istituzioni di alta formazione, artistica, musicale e coreutica. Si è occupato inoltre del riconoscimento, tutela e valorizzazione dei beni musicali, chiedendo modifiche al Codice dei beni culturali e del paesaggio.

A Michele Nitti si deve la mozione per istituire una Giornata dedicata a Dante Alighieri (Dantedì), nonché al progetto denominato «Pietre d’inciampo» (Stolpersteine), ideato e realizzato dall’artista tedesco Gunter Demnig per ricordare le singole vittime della deportazione nei campi di concentramento e di sterminio nazisti.

A Michele Nitti si deve anche l’impegno al completamento dell’iter di candidatura dell’opera lirica italiana come bene immateriale dell’umanità presso l’Unesco, nonché sulla diffusione della pratica musicale amatoriale e il sostegno alla produzione e distribuzione di strumenti musicali.

Nell’agosto 2022, promuove l’iniziativa “Otto idee per la cultura” approfondite in un dibattito pubblico con esponenti del mondo culturale italiano.