Tecno-fashion: così la moda è termometro della trasformazione digitale

di Giulio Lughi, Consulente in media digitali, già professore nell’Università di Torino

su gentile concessione di “”Agenda Digitale” , 17 agosto 2022

La tecnologia ha investito tutta la filiera della moda: dalla produzione alla comunicazione, dai negozi agli eventi. Importanti opportunità si aprono col metaverso e l’attenzione crescente alla sostenibilità. Ecco perché la moda è un ottimo indicatore per valutare la portata della trasformazione digitale

Gli investimenti della moda in tecnologiasecondo McKinsey, sono cresciuti del 66% dal 2019 al 2021, per un valore di oltre 16 miliardi di dollari; e secondo Morgan Stanley raggiungeranno i 50 miliardi nel 2030.

Ma al di là degli aspetti economici ci sono quelli socioculturali, perché nella moda entrano in gioco alcuni tra i temi più avanzati e stimolanti del digitale: gestione intelligente dei datiintegrazione globale della filiera, dalla produzione all’utente finale; personalizzazione dell’esperienza del consumatore; apertura verso gli scenari di grafica immersiva tridimensionale.

Ecco perché la moda appare come un ottimo indicatore per valutare la portata della trasformazione digitale.

Già alla fine dell’Ottocento Georg Simmel (Zur Psychologie der Mode, 1895) metteva in relazione la moda con l’avvento della società industriale, e con i cambiamenti legati allo sviluppo delle metropoli; successivamente, alla metà del Novecento, Roland Barthes (Système de la Mode, 1967) ne coglieva lo stretto rapporto con le comunicazioni di massa e la civiltà delle immagini; non sorprende quindi che oggi l’interesse dei Fashion Studies, e più in generale della Fashion Theory, si concentri sul tema del digitale e sulle profonde trasformazioni che ne derivano.

Produzione

La trasformazione digitale ha investito tutta la filiera della moda, a partire dalla produzione, dove già da tempo ha conquistato i vari ambiti del settore: progettazione dei materiali; utilizzo delle tecnologie CAD per la modellistica; ideazione e progettazione di capi per le macchine industriali 4.0; costruzione di avatar virtuali per le applicazioni nel metaverso; design degli accessori virtuali.

Il digitale modifica profondamente quelli che erano i mestieri tradizionali della moda: piattaforme come CLO 3D permettono infatti di sviluppare in digitale tutte le fasi della produzione sartoriale, generando però un deciso miglioramento in termini di sostenibilità, in quanto è possibile procedere per prove ed errori, progettando e scartando virtualmente forme e modelli senza sprecare materiali spesso preziosi e di forte impatto ambientale.

Ma al di là dei processi più tradizionali, anche le forme di produzione più avanzate si muovono sotto il segno della sostenibilità. Nel 2020 Scarlett Yang ha prodotto un materiale decisamente innovativo, che unisce caratteristiche ecologiche uniche (è prodotto con alghe e si dissolve in acqua nel giro di 24 ore) ad una forte componente tecnologica: viene generato da una stampante 3D e si presta ad essere tagliato e modellato con procedure di design digitale. Discorso simile per gli abiti digitali Biomimicry della casa inglese Auroboros, che replicano il ciclo vitale delle piante in quanto sono capaci di crescere, svilupparsi e poi decomporsi, come la vita organica.

La pervasività del digitale, modificando decisamente i processi di produzione, sconvolge anche le competenze a livello di vertici aziendali, obbligandoli ad un sistematico autoaggiornamento sulle tecnologie più avanzate; è una delle cause dei continui cambiamenti nelle posizioni apicali dei giganti della moda, obbligati a confrontarsi con piattaforme di condivisione, basi di dati, machine learning, marketing predittivo, e in genere con competenze che vanno ben oltre la tradizionale accoppiata di intuito e creatività, per collocarsi invece nell’ambito di una solida cultura digitale.

Canali di comunicazione

Uno dei classici settori di comunicazione della moda, l’editoria su carta, risente pesantemente dell’avvento del digitale: è un settore che soffre della generale diminuzione degli investimenti pubblicitari (già nel 2012 la pubblicità su web aveva superato quella su carta), e che cerca una via d’uscita riconfigurandosi da medium di massa a medium di nicchia, rinunciando al grande pubblico per puntare su pubblicazioni raffinate per una clientela di élite.

Ne è un esempio (volutamente eccessivo) The Perfect Imperfection di Golden Goose, libro pubblicato per festeggiare i vent’anni di un’azienda italiana di sneaker: fatto a mano, con copertina rigida rivestita in tela grezza a caratteri laminati in oro, diverse tipologie di carta tipografica, un segnalibro composto da lacci neri con logo Golden Goose e finiture in oro, contenuti multimediali in Realtà aumentata accessibili via QR code.

Su una strada più phygital si muove invece Vanity Fair, che punta all’integrazione fra carta stampata e mondo digitale; lo fa con il suo ambiente virtuale, una sorta di museo nel metaverso, tutto da esplorare tra informazioni e acquisti. Senza dimenticare che funzionano ancora molto bene i canali transmediali tradizionali, ovviamente quando legati a prodotti di qualità come il film House of Gucci (Ridley Scott, 2021) che ha moltiplicato le vendite di borse, maglie, occhiali e in genere dei vari accessori indossati dai personaggi.

Resta sempre molto importante la comunicazione sui social, con Pinterest in deciso calo e nuovi arrivati come Geneva in forte aumento, e con TikTok in costante crescita; a TikTok cercano di rispondere Instagram con i suoi Reel, e Google – a livello superficiale – con YouTube Beauty Festival e Holiday Stream and Shop, ma soprattutto – a livello profondo – con Google Retail Search, che consente ai marchi di utilizzare nei propri siti la tecnologia di ricerca Google, e con Google Lens, che permette di cercare e trovare prodotti partendo da un’immagine.

Ma accanto alle pagine sui social si diffondono sempre più le app proprietarie dei singoli marchi, che consentono – oltre alla normale visualizzazione del catalogo e all’acquisto del prodotto – esperienze digitali più avanzate: già nel 2018 Gucci proponeva una visualizzazione in Realtà Aumentata per collocare i prodotti nell’ambiente fisico reale del fruitore; come del resto propone Louis Vuitton con Objets Nomades. Un settore potenzialmente in grande espansione, in quanto le app funzionano sempre più come esperienze emozionali globali, che accompagnano la possibilità di acquisto con varie modalità di intrattenimento, personalizzazione, informazione, spettacolarizzazione: come del resto faceva Nike negli anni Novanta, quando lanciava il suo marketing esperienziale con lo slogan “Noi non vendiamo solo scarpe, vendiamo una vita dentro quelle scarpe!”

Negozi online

Le vendite online hanno ricevuto un forte incremento durante la pandemia: ma mentre i grandi marchi – tradizionalmente orientati alle vendite in presenza – restavano un po’ in ombra, crescevano le piattaforme che nel pre-pandemia erano già presenti sul mercato, come Farfetch Yoox, o nascevano nuove iniziative come gli Amazon Luxury Stores; situazione che si è tuttavia presto riequilibrata con l’entrata in campo dei grandi marchi, che hanno aperto proprie piattaforme, o hanno acquisito piattaforme esistenti, o hanno stretto accordi di vendita con le piattaforme stesse.

Bisogna tuttavia segnalare che il settore delle vendite online è in rapidissima trasformazione, per cui è opportuno distinguere almeno due fasi principali: la prima, che possiamo definire pionieristica, o di puro e-commerce, consiste in un catalogo digitale strutturato, interrogabile per parole chiave, che consente al cliente di scegliere e pagare il prodotto preferito per riceverlo successivamente a casa; la seconda fase, che si basa sulle potenzialità del digitale avanzato, vede i “negozi online” diventare piattaforme strutturate come metaversi, dove il cliente assume le forme di un avatar virtuale, che a quel punto può scegliere fra capi di abbigliamento e accessori che non sono semplici oggetti, fisici o virtuali, ma elementi NFT resi unici dalle blockchain; il tutto in un contesto emozionale guidato da quelli che ormai sono due tra i mantra irrinunciabili di ogni progetto commerciale: storytelling e gamification.

Di questa seconda fase è un esempio Vault Gucci, ambiente virtuale che si ispira ai concept store fisici di qualche anno fa per offrire – oltre al negozio online – un luogo di incontro, un laboratorio sperimentale, una galleria d’arte, un archivio di prodotti vintage: una piattaforma dinamica in continua evoluzione per fare da volano tra produzione, utenza, creatività contemporanea.

Il punto forte dei negozi online tradizionali è sempre stata la gestione intelligente dei dati, che consente di razionalizzare la distribuzione concentrando il magazzino fisico e garantendo quindi al cliente, ovunque si trovi, la costante disponibilità di modelli, taglie, colori. Dal punto di vista del cliente, questo si traduce nella sempre maggiore possibilità di personalizzare il prodotto, scegliendo e combinando gli elementi di abbigliamento grazie a quella che è stata definita la “logica del database”, che gestisce allo stesso tempo la componibilità dei capi e l’interattività delle interfacce utente.

Ma con la seconda fase dei negozi online, oltre a questo, il cliente ha a sua disposizione un ambiente virtuale, dove accanto all’aspetto commerciale è sempre più importante l’aspetto esperienziale e dove entrano in gioco i processi di definizione del sé: in questo modo il negozio online rientra, con i videogiochi e con le videocall, tra quegli elementi innovativi del digitale che esercitano un forte impatto sui processi identitari, sul rapporto con il corpo fisico, sulle pratiche di relazione con i modelli sociali.

Nuovi negozi fisici

Dopo la prima stagione del digitale, in cui sembrava che ci fosse un’incolmabile distanza rispetto al mondo fisico (l’aggettivo virtuale sembrava irrimediabilmente opposto a reale), oggi si diffonde sempre più la dimensione phygital dove il digitale permea di sé anche gli spazi fisici.

Innanzitutto, il digitale entra nei negozi fisici in forma “nascosta”, connessa a quella logica del database di cui si è detto sopra: ad esempio con l’impiego della tecnologia RFID, che negli ultimi anni ha avuto una drastica riduzione di costi e un aumento della semplicità d’uso, per cui si sta diffondendo sempre più nel commercio al dettaglio come strumento di tracciamento della merce e gestione del magazzino.

Una forma nascosta che però affiora anche in superficie nelle catene di negozi fisici più avanzati, come nel caso del gigante americano COS. Qui i camerini di prova digitalizzati sono dotati di specchi (in realtà interfacce interattive) che riconoscono il prodotto indossato dal cliente e suggeriscono abbinamenti e accessori, oltre a consentire di scegliere altre taglie o colori, dando contemporaneamente la possibilità di pagare direttamente senza passare alla cassa. Contemporaneamente, lo “specchio” è un ottimo punto di raccolta dati sui gusti dei clienti e sugli abbinamenti più graditi: il gestore del negozio ricava in tempo reale gli indicatori sulle tendenze di acquisto e può quindi gestire il magazzino anche in sinergia con gli altri punti vendita della catena.

Da segnalare anche il caso di Shein, colosso cinese del fashion online, che apre un negozio fisico temporaneo di tre giorni a Milano; un chiaro esempio di iniziativa “top down”, accanto alla quale fioriscono invece anche iniziative “dal basso”, di taglio più artigianale, con influencer di Instagram o TikTok che aprono nuovi negozi fisici, per lo più di impronta vintage, come Emma Rogue o Matthew Choon con la sua Bowery Showroom: esempi che confermano ancora una volta il carattere dinamico e trasversale del digitale, e in particolare del web, che da un lato porta verso concentrazioni tecnologico-finanziarie sempre più potenti, dall’altra lascia spazio a iniziative locali in grado di conquistare una propria nicchia di comunicazione e mercato.

Eventi, sfilate, festival

Ai primi segnali di allentamento delle restrizioni pandemiche era logico aspettarsi un’ondata di riflusso verso gli eventi in presenza; al facile tecno-entusiasmo digitale esibito durante la pandemia, quando non si poteva fare altrimenti, è naturale che segua una ventata di nostalgia per gli eventi dal vivo.

Ma la trasformazione digitale è ormai in atto ed estende i suoi territori: ad esempio con la sponsorizzazione da parte di TikTok dei prestigiosi Fashion Awards, chiaro segnale dell’interesse del mondo della moda per i gusti dei giovanissimi ma, al tempo stesso, indizio di quanto questo social network sia considerato trainante rispetto ai gusti del pubblico; passando sul piano esclusivamente virtuale, ricordiamo la presentazione della collezione Balenciaga fatta all’interno del videogioco Afterworld: the Age of Tomorrow, o ancora la Metaverse Fashion Week, a cui hanno partecipato oltre 60 marchi, presentando complessivamente circa 500 capi indossati da avatar e disponibili per l’acquisto come NFT.

In termini più generali, possiamo dire che il digitale consente di sganciarsi dalla dimensione qui ed ora dell’evento: già alla fine del 2020 Gucci lancia il Guccifest, un insieme di eventi seriali trasmessi periodicamente su YouTube e completamente slegati dalla logica dell’appuntamento stagionale: miniserie tv, progetti di stilisti emergenti, un videogioco per entrare nel mondo emozionale della maison. La rottura del legame con la logica spazio-temporale sembra essere ciò che contraddistingue questi nuovi happening virtuali, dove le dinamiche relazionali vengono obbligate a riconfigurarsi dando nuovo significato agli incontri in presenza, come in Mondogenius di Moncler, un’esperienza immersiva che connette gli spettatori di tutto il mondo trasportandoli virtualmente in cinque città diverse.

A proposito di sfilate, un’ultima osservazione estetica: recentemente è stata notata la scomparsa dal metaverso delle modelle virtuali, considerate troppo perfette, troppo fuori dai parametri valutativi dell’esperienza quotidiana. Un fenomeno che ha una doppia spiegazione: una politico-culturale, in quanto una figura troppo perfetta risulta negativa rispetto alla odierna sensibilità verso i soggetti che non corrispondono ai canoni di un modello ideale; la seconda estetico-tecnologica, in quanto fa riferimento all’effetto chiamato Uncanny Valley – noto da tempo nell’ambiente della grafica digitale – che descrive la sensazione perturbante che assale le persone di fronte a robot, o altri artefatti digitali, le cui fattezze siano talmente realistiche da risultare “troppo umane”.

Ibridazioni culturali

La moda sta assumendo una delle caratteristiche culturalmente più significative del digitale, e cioè l’ibridazione: rispetto alla precedente cultura industriale, tradizionalmente suddivisa in filiere ben distinte, la cultura dell’età digitale è per sua natura contaminata, trasversale, composita. In questo senso, da sempre la moda si è intrecciata con le varie forme dei media e delle comunicazioni di massa, soprattutto con la cultura visuale, la grafica, il design, la pubblicità; in particolare ha sempre intrattenuto rapporti privilegiati con l’arte contemporanea, come fonte di ispirazione per le collezioni, con le collaborazioni fra artisti e grandi marchi, con la sempre maggiore condivisione di location e installazioni site specific.

Ma ora al binomio ben sperimentato di arte e moda si aggiunge la tecnologia digitale, che peraltro già da tempo dialoga autonomamente con l’arte contemporanea, ad esempio negli esperimenti di intelligenza artificiale, o nel tentativo di definire in termini generali una strategia digitale, o per le problematiche di spettacolarizzazione.

I prodotti interessanti non mancano: ad esempio il video per la campagna di primavera ’19 di Balenciaga già riprendeva stilemi grafici tipici della creatività visuale digitale; su un piano più istituzionale al Festival di Spoleto viene presentato il progetto speciale Artificial Artechnology della Fondazione Fendi, tra immagine digitale e realtà aumentata; Refik Anadol realizza per Bulgari, in piazza Duomo a Milano, una scultura polisensoriale immersiva; Balenciaga presenta la sua collezione in dialogo con gli esoscheletri robotici di Hiroto Ikeuchi.

Ma l’attenzione per l’arte contemporanea deriva anche dalla particolare attenzione che il mondo della moda dedica alle giovani generazioni, in quanto potenziali o già effettivi consumatori: come rileva un interessante lavoro di ricerca sulle modalità di comunicazione che maggiormente impattano sugli acquisti fashion della Gen-Z, i giovani consumatori prediligono infatti nettamente i format che richiamano l’estetica visuale del contemporaneo e dell’arte digitale.

L’altro grande settore verso cui la moda si sta aprendo è quello dei videogiochi, e più in generale della gamification, settore ormai depurato dall’ostracismo culturale che lo ha accompagnato agli inizi. La prima (e più ovvia) collaborazione è stata la produzione di outfit per gli avatar che popolano i mondi videoludici: in particolare da segnalare le collaborazioni con Fortnite di grandi marchi (Balenciaga, Nike, Puma, Havaianas), la presenza di Ralph Lauren su Roblox, o la produzione Lacoste per Minecraft.

Ma accanto a queste collaborazioni “di servizio” si registrano progetti più strutturati: ad esempio Louis the Game di Vuitton, vero e proprio videogioco in cui il fruitore deve scoprire le varie tappe del successo della maison; o il sito dedicato di Gucci, che ospita tutta una serie di giochi digitali. Si tratta di prodotti decisamente semplici dal punto di vista del game play, ma che offrono un interessante spunto di riflessione sul piano estetico: sono infatti prodotti estremamente curati dal punto di vista grafico, che si lasciano finalmente alle spalle l’immaginario di derivazione cartoon o fantasy al quale troppo spesso si ispirano i prodotti videoludici.

Da segnalare infine la Gucci Gaming Academy, iniziativa promozionale-formativa che si propone di reclutare e perfezionare giovani talenti emergenti nel campo degli e-sport, puntando evidentemente ad una sensibilizzazione delle generazioni più giovani verso il mondo della moda e in particolare verso i marchi più prestigiosi.

Conclusioni

Nella attuale congiuntura economica e climatica il mondo della moda non può esimersi dal dimostrare attenzione verso il tema della sostenibilità ambientale, come nella grande kermesse “Phygital Sustainability Expo” organizzata dalla Sustainable Fashion Innovation Society: esigenze di immagine, certo, ma anche di effettiva sensibilità “culturale” verso temi che sono in primo piano per le fasce più giovani di consumatori. Senza dimenticare che c’è una tendenza a ridimensionare, più o meno implicitamente, il concetto stesso di “lusso”, proprio in omaggio alla trasversalità liquida del digitale che sovverte anche i tradizionali criteri di “alto” e “basso”.

L’attenzione per la sostenibilità riguarda naturalmente gli aspetti fisici della moda, dalla scelta dei materiali ai processi di produzione industriale, ma – come già accennato sopra – l’impatto del digitale sulla sostenibilità rappresenta un vero e proprio cambio di scala, una modificazione sistemica, in quanto consente di virtualizzare gran parte del lavoro di progettazione e prova su materiali reali, limitando l’impatto ambientale della lavorazione industriale solamente al prodotto finale. Inoltre, il digitale semplifica in senso sostenibile tutti i processi di tracciamento e gestione dei prodotti: Prada, ad esempio, ha avviato un progetto di certificazione dei capi mediante la blockchain, che garantisce l’autenticità del prodotto ma anche la trasparenza della sua filiera produttiva, oltre a garantire l’identità del prodotto in caso di vendita o comunque di cambio di proprietà. A questo proposito va notata, sempre nell’ottica della sostenibilità, la costante crescita del riuso dei capi di abbigliamento da parte degli utenti, tra l’altro favorita anche dai grandi marchi; un fenomeno culturalmente interessante in quanto trasferisce su piattaforme tecnologiche il gusto vintage dell’esplorazione dei mercatini dell’usato, riciclandolo come circular economy.

L’attenzione per la sostenibilità ambientale si coniuga perfettamente con l’altro grande scenario che si prospetta sull’orizzonte dei media digitali, il metaverso, l’ambiente virtuale in grado di accogliere e centrifugare tutti i mantra culturali che recentemente popolano il palcoscenico digitale: storytelling, gamification, transmediale, blockchain, NFT, phygital, immersivo, esperienziale, partecipativo, fluido, ecc. Mark Zuckerberg in persona è sceso in campo nel suo video di presentazione del progetto Meta, toccando molti temi relativi al mondo della moda: dall’abbigliamento degli avatar alle possibilità locative per la riorganizzazione degli spazi di vendita, o per la gestione di eventi spettacolari. La dimensione virtuale del metaverso è infatti ideale per far apparire e scomparire senza alcun impatto ambientale le variopinte creazioni spesso destinate a morire nell’arco di una stagione.

Certo è che il rapporto fra metaverso e moda apre anche nuove prospettive per l’analisi sociologica: l’interesse dei consumatori (il 50% degli americani, secondo alcune fonti) a possedere e/o a comperare dei capi di abbigliamento virtuali ci dice che le piazze del metaverso sono comunque luoghi dove andare, dove avere relazioni, dove farsi vedere; sono piazze virtuali dove i fashion addicted possono esibirsi su un palcoscenico globale, moltiplicando le potenziali via Condotti, o Montenapoleone, o Rodeo Drive ben al di là dello scenario ristretto della passeggiata sul corso principale del paese; senza contare che la certificazione garantita dagli NFT contribuisce ulteriormente ai processi identitari connessi all’esibizione del sé.

Non solo: un fenomeno già riscontrabile nelle videocall, quello della personalizzazione libera dell’abbigliamento, si rinforza e si estende tanto più nel metaverso, dove apre la strada ad abbigliamenti a volte anche eccessivi, ma comunque creativi, secondo una tendenza al mascheramento che si nutre della cultura dell’avatar di ascendenza videoludica, con i suoi tratti combinatori che di nuovo riportano alla “logica del database”. E su questa linea, infine, non si può non notare che l’esperienza del metaverso ben si accorda anche con il tema della fluidità di genere, poiché la caratterizzazione degli avatar sfugge a qualsiasi gabbia rigida, rifiutando i modelli stereotipati e ripescando piuttosto forme e suggestioni libere e trasgressive fecondate dagli immaginari fluidi del cyberpunk, della fantascienza, delle narrazioni distopiche.

Queste sono le prospettive attuali sul metaverso, enunciate – come spesso accade nel mondo del digitale – in termini di “magnifiche sorti e progressive”: tuttavia, cautela vuole che si tenga presente l’incognita di un possibile fallimento, come quello che ha travolto Second Life (il metaverso degli anni Duemila) quando nel 2008 ha acquistato due aziende specializzate in marketing online, XstreetSL e OnRez, per dare alla piattaforma una svolta commerciale. Da allora Second Life ha perso il suo carattere di fenomeno di massa per diventare un fenomeno di nicchia, destinato ad ospitare esclusivamente progetti specialistici.

Non bisogna dimenticare infatti che il mondo della moda appartiene al grande comparto della produzione culturale, il quale non obbedisce automaticamente alle logiche dell’evoluzione tecnologica: certamente in prospettiva lo scenario mediatico sta evolvendo verso il “visuale immersivo tridimensionale”, ma il successo o il fallimento delle singole concrete iniziative dipendono dalle logiche più sottili – emozionali e sociali – che presiedono al funzionamento dei prodotti culturali.